Adorazione sulla spiaggia di Pellaro* |
Era la terza domenica che Teresa
partecipava alla messa in quella piccola chiesa, con alle spalle il mare e aperta
a oriente su colline di vigne, che bella non era, ma doveva esserla stata, come
mostravano le pietre che s’intravvedevano a tratti sotto una spessa mano di
calce.
Avrebbe abitato ancora qualche
settimana in quel paesetto di campagna dove s’erano rintanata con la più amica
che collega Rina (nella casa di lei) per completare la sceneggiatura di una
prossima fiction televisiva.
Le domeniche precedenti, Teresa
aveva apprezzato il modo di celebrare di don Francesco: sobrio ma non scarno,
d’una semplicità non evanescente, lento il giusto, tono pacato, il senso del
sacro non sceneggiato, due omelie belle.
Le omelie, Teresa aveva preso
l’abitudine di catalogarle per colori: nere, quelle di superficialità intollerabile
tanto che, già dopo la prima frase, si metteva un tappo virtuale all’udito e
pensava ad altro; marroni, quelle che parevano proclami ideologici e/o politici;
grigie, quelle insipide, che niente mettevano e niente toglievano; azzurre,
quelle che facevano battere il cuore, ma dopo un po’ non ne restava niente;
blu, quelle che, nel tempo, continuavano a parlarle.
Anche questa volta, Teresa s’era
preparata bene. Non solo aveva già letto, fin da giovedì, il brano del Vangelo
appena proclamato, ma anche alcuni commenti di noti biblisti. Le bastarono
poche parole per avvertire come il respiro di chi parlava fosse più vasto e
profondo di quanto lei avesse letto. E più sincero.
Man mano che parlava, don
Francesco – poco più di quaranta anni, piccolo di statura, il sudore che gli
imperlava la fronte, negli occhi un che di infantile che avrebbe conservato
anche in vecchiaia – diventava voce. Era come se il suo corpo, la sua fisicità
– pur nella concretezza del suo essere lì, sul pulpito, a lato di una brutta
statua della Madonna semicoperta da un bel cesto di fiori – venissero assorbiti
in ciò che diceva.
Ogni parola pareva lavata in
acqua sorgiva e passata nel fuoco di olivi secolari; tagliava nel buio squarci
di luce che ferivano e curavano, consolavano e vincolavano, obbligavano e
liberavano.
Non è del tutto corretto – si
disse Teresa – accumunare il cristianesimo alle religioni del libro, poiché
esso è religione della parola (incarnata). Per questo, un prete che fa omelie
brutte (sinonimi: banali, false, stiracchiate sulle esigenze di
tizio o caio, vuoti esercizi di retorica; astrazioni prive di qualsiasi legame con i dolori e le felicità della vita) è non solo un annunciatore debole del
Vangelo ma anche, molto difficilmente, un buon prete.
Considerazioni che non intaccavano
il fatto che, mentre don Francesco si faceva voce (incarnava un’altra voce), Teresa diventasse udito che
ascoltava. Né lo intaccavano i pensieri che le crescevano a sciami, come api
operose ad approntare il miele.
Com’è – si chiedeva – che un uomo
sceglie un mestiere in cui la propria realizzazione consiste nello svuotamento
di sé?
Immaginò don Francesco bambino
buono e ubbidiente, poi adolescente primo della classe, appena un po’ timido e
forse solitario, liceale a modo, universitario serio. Chissà se l’idea di farsi
prete l’aveva stupito come un’illuminazione inattesa, o gli era lievitata
dentro come la pasta di pane che cresce fino a trasbordare. Chissà cosa avevano
detto sua madre e suo padre, se s’era mai innamorato (perché, di una donna, un
uomo può fare a meno, e viceversa, ma fare a meno dell’idea di una donna, o di
un uomo, è molto meno semplice). Qual era la ferita che l’aveva segnato (il
dito di Dio sulla sua carne) fino a fargli prendere con gioia (perché c’era
gioia, umile ma netta, nel suo sguardo) la via del non appartenersi,
dell’essere fratello di tutti, del tutto uguale, ma attraverso un taglio, una separazione, una
distanza che rende più vicino ma non annulla lo stacco, ore e ore ad ascoltare
gli altri, tutto il tempo ad ascoltare un Altro e l’urgenza di dire continuamente,
con le parole, coi fatti, col silenzio?
Teresa uscì dalla messa mezza stordita.
S’incamminò sulla strada più lunga per placare il turbinio del cuore che le
faceva sentire la distanza tra chi, come lei, credeva, tra dubbi e
inquietudini, che il Regno esistesse e chi ne aveva fatto e faceva esperienza
vera. Respirava piano la pace dei mutevoli verdi di piante di cui neppure
conosceva il nome e l’aria dolce delle mattinate di primavera quando sta per
diventare estate. Non sarebbe stato semplice, quella domenica, continuare con
Rina i dialoghi della loro fiction.
*Foto tratta da Fb
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