Terremoto, insieme a emigrazione
e guerra, è una parola che ha
accompagnato tutta la mia infanzia e la mia adolescenza. Quando sono nata,
erano passati ben più di quaranta anni dalla tragedia del 1908, ma quel
disastro continuava a far parte non della memoria, ma del presente di nonni e
prozii: uno spartiacque tra un prima e un dopo che si rinnovava ogni giorno,
nel loro continuo discorrere con i morti e le macerie che li abitavano ancora.
In
Calabria, negli anni, mi è capitato di vivere questa o quella scossa, nessuna
grave, per fortuna. Il mio terremoto devastante l’ho vissuto a Napoli, nel
1980. Quando, dopo ore e ore, riuscii a prendere la linea e chiamare Reggio, dissi
d’un fiato: “Siamo vivi”. Non c’era nessuna retorica in quelle due parole
affrettate: durante gli interminabili secondi del sisma, avevo pensato che
quelli erano gli ultimi istanti della mia vita.
Ad
ogni terremoto – insieme al dolore per i morti, alla sofferenza per tante
sofferenze, allo struggimento per luoghi che non saranno più come prima, alle
domande, dolenti e rabbiose, che sembrano non ottenere risposta, a cominciare
da: ma perché continuiamo, ben conoscendo la strutturale fragilità del nostro
territorio, a non averne la giusta cura? – torna un tremore antico.
Una
consapevolezza, colma di timore. Quando capiterà di nuovo alla mia terra, se
succederà durante gli anni della mia vita, vorrei essere qui: a condividerne la
sorte.
(Oggi era iniziato, per me, con uno splendido arcobaleno sul mare. Poi ho aperto il computer su una delle nostre più tristi giornate)
(Oggi era iniziato, per me, con uno splendido arcobaleno sul mare. Poi ho aperto il computer su una delle nostre più tristi giornate)
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