venerdì 30 dicembre 2016

Microstorie: Esterina








L’ho chiamata già tre volte, ma Lidia è rimasta china a raccogliere conchiglie. A me, le conchiglie sono indifferenti, ma odio questa spiaggia con poca sabbia e molte pietre, piena di cacche di cane, plastiche, cartacce e sporcizie di diverso genere. E odio pure il mare: d’inverno e, soprattutto, d’estate quando le mie compagne si spaparanzano mini costumi per abbronzarsi meglio. Vorrei vivere in un paese di montagna, con la neve bianca che scende sugli abeti e il freddo che arrossa le guance e non sentire questo sudore che scivola sotto le ascelle in giornate come queste, che a dicembre sembra primavera. Oppure, in una città con la biblioteca, il teatro e musei dove poter passare domeniche e feste comandate. Invece, mi tocca sopportare il sole e, certe cose, vederle solo in tv o su internet.

Lidia ha dieci anni, cinque meno di me, e diventerà una ragazza bella, contenta di sé e con un fidanzato giusto. Non la sopporto, come non sopporto nessuno dei miei parenti per parte di padre. Con quelli materni, vado più d’accordo: perché non ne ha.

Zia Luisa e mia mamma sono andate a fare la spesa grossa per la Vigilia e Natale – si fa la tavolata dei parenti: tutti sembrano contenti, io no – e mi tocca stare qualche ora con lei. Comunque, meglio conchiglie che presepi. Prima di arrivare a mare – a stare insieme a casa mi pareva d’impazzire – è voluta entrare in chiesa e squittiva su questo o quel pastorello.

Io non credo a Dio e nelle chiese soffoco.

Veramente, soffoco dappertutto. È questo luogo che mi sta stretto. Una volta – dicono – il mare era bello. Io, vedo che ci sboccano dentro le fogne e che la spiaggia è imprigionata da cancelli di ferro. E tutta ‘sta bellezza dell’Etna non ce la vedo: e, comunque, non sarebbe bellezza di questo luogo.

Non mi piace niente di qui, neppure i petrali.

Voglio andare via. Lontana da questo dialetto, dalla gente che ti giudica strana se non sei come lei, da quest’aria immobile.

Io bella non sono e non lo diventerò: anche se dimagrissi e mettessi una parrucca, non ho forme aggraziate e anche il mio viso è senza armonia. Non mi piaccio, ma fingo che della bellezza fisica non mi importa niente e quello che conta è l’intelligenza e il sapere.

Una cosa di me mi piace. Anzi: non mi piace ma mi piace. Mi chiamo Esterina, come mia nonna. Di per sé il nome mi fa vomitare e anche che sia il nome di mia nonna mi secca assai. Ma certe volte lo prendo come se, nel mio destino, ci fosse, chiaramente, che andrò via da qui, chissà magari in Inghilterra o in America: e, allora, mi sembra quasi bello.

giovedì 29 dicembre 2016

Racconto: Struffoli e crespelle 'a vento







A cinquantadue anni, il barone Federico De Falzea prese moglie. La seconda. La prima, ricca, lamentosa e brutta, gli aveva lasciato tre figli e proprietà bastevoli per alcune generazioni. Per qualche mese, s’era goduto in pace la sua buona sorte, ma presto il rinnovato fremito di gioventù per quella sì opportuna morte s’era preso gioco di lui.

S’era invaghito della giovane figlia del marchese De Lieto e, non volendo sprecare denari ed energie in avventure che, invece di fargliela dimenticare, gliel’avrebbero conficcata nelle carni, s’era risolto a chiederla in moglie, felicemente esaudito dal marchese e dalla di lui consorte. Gelsomina, che del fiore portava sulla pelle il sontuoso candore e il profumo inebriante, non era bene da poter lasciare solo in villa e quando il barone dovette partire per l’estrema Calabria a trattare in privato certi affari col fratello minore, la portò con sé.

La casa del barone Ferdinando stava sulla strada che scorreva lungo la spiaggia. A piano terra, c’erano i magazzini e la cucina e, più discosta, la stalla dei cavalli e delle mucche. Al piano superiore, le camere da letto si aprivano tutte su un ampio terrazzino. Di notte, a Gelsomina pareva di dormire dentro il mare, come fosse una conchiglia. All’alba s’affacciava per guardare l’orizzonte: sull’uniforme grigio-azzurro, mano mano cominciavano a chiarirsi i contorni delle montagne sicule, fino all’apparire dell’Etna che rifletteva sulle acque tutti i colori del mondo. Era metà gennaio e la temperatura era mite. Le piaceva stare lì. Non c’erano visite da scambiare né qualche rinfresco pomeridiano di cui chiacchierare per giorni. Ma ogni cosa le pareva nuova e bella. Il barone Ferdinando era un massaro, attento alle sue terre. Usciva alle prime ore del mattino e non si vedeva che a pranzo. Aveva una passione per le api e nel magazzino, tra le giare dell’olio e quelle del grano, il suo sguardo si posava con compiacimento su un alto salaturi colmo di miele. Giovannina, sua moglie – che aveva poco più di trentanni, i capelli non più del tutto neri raccolti a tuppo sulla nuca, gli occhi vivi e quieti – sovraintendeva a tutti i lavori di casa e non era raro trovarla nel pollaio a raccogliere le uova, che riservava ai cinque figli. I grandi mangiavano cicerchia e legumi spezzati e, nei giorni di festa, anche qualche fetta di melanzana seccata in estate e ora arrostita.

Se di tutto si occupava personalmente, in tutto donna Giovannina si faceva aiutare da Minichina, che, vedova del precedente fattore, il barone s’era convinto a ricoverare con le due figlie in una delle baracche vicino alla stalla. Facevano da cuoche, cameriere, inservienti, aiutanti nei campi, cucitrici, secondo le necessità dei giorni. A Gelsomina, fin dalla prima sera, Giovannina aveva mandato Mariuzza, che per anni – ne aveva quindici – e per garbo poteva essere più gradita alla giovane cognata. A Gelsomina non parve vero che a intrecciarle i capelli e a toglierle gli stivaletti fosse una ragazza quasi della sua età, con cui passeggiare a mare, nella conca tra l’albero di brucare e il grande pioppo, ridendo di niente, nella controra, quando il marito stava col fratello, la cognata si dedicava al rammendo e tutto in lei chiedeva sabbia e sole.

Quando tornarono a Napoli, Mariuzza li seguì. Gelsomina lo chiese per mostrare che il marito nulla le negava. Il barone Federico lo concesse perché la moglie era con lui più compiacente di quanto mai avesse sperato. Minichina sistemò così una figlia e, con un po’ di suo lavoro in più, non sarebbe stata una grave perdita per donna Giovannina. Nessuno si preoccupò di sapere cose ne pensasse Mariuzza, che si sentì morire a lasciare quel suo pezzo di mare. E pure Cicciu, il figlio del nuovo fattore, si sentì derubato di qualcuna che gli apparteneva.

A Napoli, Mariuzza finì in cucina e solo di tanto in tanto Gelsomina la chiamava per farsi pettinare, o stringere il busto o incipriarsi il naso. “Oggi – disse un giorno – ho voglia di miele, ma a mangiarlo col pane mi viene nausea”. “Se volete, vi faccio io una bella cosa”, sorrise Mariuzza. Tornò un’ora dopo con un piatto pieno di pignolata. Donna Gelsomina assaggiò incerta, continuò spedita e finì con l’ordinare che si mettesse nell’elenco dei dolci per gli ospiti di riguardo. “Ma devi farlo più colorato e allegro: una festa anche per gli occhi”. 

Fu contenta, donna Gelsomina, quando contesse e baronesse si complimentarono dell’invenzione delle sue cuoche e, magnanima, mandò Mariuzza a riferir la ricetta nelle cucine amiche, sì che, nelle visite natalizie, ci fu un gareggiare di piramidi barocche. Una sera, si degnò d’assaggiare anche il conte De Gattis, smemorato dagli anni, ma colmo di libri conservati nella mente. Ogni pallina, disse, sembra uno strongoulus. Nessuno capì, ma tutti dissero di sì, che erano proprio degli struffoli.

Un mese dopo o poco più, tornando dall’ultima festa carnevalizia prima della sua, donna Gelsomina fece chiamare Mariuzza e, col tono da grande che prendeva con la servitù, le ordinò di provare una novità che, di nuovo, facesse, del suo, il primo salotto della città. Era notte e Mariuzza, che aveva, quel giorno, sfregato tutti i ripiani e tutte le stoviglie, sentiva mani stanche e mente vuota. Non tornò a letto. Scese in cucina, si sedette, la testa appoggiata sulle braccia ripiegate ad un angolo del tavolo ad ascoltare il vento che fischiava a finestre e porte chiuse. Si lasciò riempire della risacca del mare quando pareva entrare nella baracca della sua infanzia, fino a che il grumo del cuore s’allentò. Poi prese farina e uova e li mescolò, come per fare la pignolata, ma aggiungendo un po’ di sugna. L’impasto le venne duro, lo ammorbidì appena con un bicchierino d’anice, tirò la sfoglia, fece tante striscioline e le buttò mano mano nell’olio bollente; ricoprì di polvere di zucchero e assaggiò.

Le signore – che, labbruzza a cuore, mangiavano a quattro palmenti – si degnarono di commentare che una chiacchiera dopo l’altra, magari con la cioccolata calda, rendeva un po’ meno pesante il difficile loro compito di conversare per ore. Mariuzza non ebbe mai modo di dire che, quelle, erano le crispedde ‘a ventu, che donna Giovannina preparava una volta l’anno. Soffici e gonfie, impalpabili come la brezza leggera dell’alba che carezzava l’azzurro Mongibello il lieve tremolare delle onde nei tramonti quieti sul mare che lei non avrebbe più rivisto.




 Questo racconto è stato pubblicato si Zoomsud nel gennaio 2012

mercoledì 28 dicembre 2016

Politeama di Gianni Amelio: le mie recensioni per Zoomusd







«Quando Luigino aveva sette anni, sua madre lo vestiva da femmina. Al buio, nella casa senza finestre, lo faceva salire su una sedia e gli infilava le mutandine rosa, poi la gonnella a fiori, la camicetta con le maniche corte, le calze e le scarpe bianche della sorella che era morta il mese prima. In strada lo teneva per mano e lui camminava zitto a testa bassa, mentre i ragazzi lo chiamavano da lontano: “Ginetta, Ginetta bella…”»

Luigino cresce in un piccolo, povero paese della Calabria, figlio di padre ignoto e di una giovanissima ragazza Ida (quindici anni quando, già madre di una bambina, l’aveva partorito), «un’anima semplice», di cui non sapeva niente «perché lei non parlava né con lui né con nessuno. Si faceva capire a gesti ma non era muta, aveva la testa chiusa, con pochi pensieri dentro che le tenevano compagnia.» A scuola impara poco: «le parole del sillabario non gli entravano in testa»; ha un solo amico, Aldo che «lo stringeva da dietro e lo accarezzava senza fargli male»; si innamora di Meri, una fiorentina ventenne in visita a dei parenti.

Finita la madre in manicomio a Montefalco e, poi, morta suicida, Luigino viene aiutato dal prete e da una ricca signora, da cui scappa per rifugiarsi nel tugurio di Carmina, una donna massiccia e rozza che si dedica al pascolo delle capre e che, una sera, gli indica in Luigi, un venditore ambulante di pesce, «un giovanotto di statura piccola, ma forte di braccia e di cosce, con i baffetti alla moda», il padre mai conosciuto: «Bellu u guaglione ‘e Napoli, eh? Chillu a tia t’è padre.»


Ormai grandicello, Luigi conserva una voce sottile, da ragazzina, che suscita, al suo passaggio, nella «città senza stazione», commenti sarcastici. È Malastampa, un tipo «allampanato come un manico d’ombrello, il passo di fretta e le mani in movimento, e si scioglieva i capelli ossigenati sulle spalle», a dirgli, «tu si com’a mmia, si fimmina», a insegnargli a valorizzare la voce («Luigino non solo era intonato ma allungava i finali meglio di Flo Sandon’s e di Giorgio Consolini, che erano i suoi cantanti preferiti») e a imparare qualche passo di danza. Vestito da donna e con il nome d’arte di Genny, Luigino comincia a esibirsi al teatro Politeama. Da Napoli si trasferisce a Roma dove conosce la giovanissima Elide, che sposa e da cui ha una bambina, cui dà lo stesso nome della madre, Ida.


A Roma, Luigino fa molti lavori diurni per mantenere la famiglia, oltre a cantare, la sera, nelle trattorie, del tutto dedito alla figlia, trascurata, invece, dalla madre, ma rimane presto solo perché Elide scappa via portando con se la bambina. Conosce un mondo di sbandati che sopravvivono facendo marchette per poche centinaia di lire e le sale cinematografiche usate per incontri particolari. All’Apollo avviene, per caso, un incontro col padre: un dialogo fittissimo, torrido, in cui manca il riconoscimento esplicito tra i due, molto diversi eppure accumunati da tracce sottili.


Esordio letterario del regista Gianni Amelio, Politeama è un romanzo di formazione scritto in terza persona, ma in soggettiva, dalla parte del protagonista. I venticinque capitoli, preceduti quasi tutti da alcuni versi di canzoni d’amore in voga nel dopoguerra, raccontano, dal punto di vista di Luigino, bambino, ragazzo, giovane e adulto, la vita che gli capita.


Dalla quasi favola dell’infanzia dai toni dickensiani e con atmosfere che rimandano a certi straniamenti chapliniani al quasi dramma teatrale del dialogo all’Apollo si precisa il senso, più consapevole nelle tre lettere, due alla madre e una alla figlia, dell’accettazione, umile e tenace, della propria identità diversa. E dell’accettazione della vita, sempre: nelle sue esperienze più lievi e più crude, e per quanto imperfetta e incompiuta.