domenica 29 gennaio 2012

Addio al Presidente Scalfaro


Luglio 1994. Sabato sera. Roberto Baggio aveva appena segnato il gol che ci assicurava la semifinale ai mondiali americani quando una telefonata del vicedirettore riportò i miei pensieri a Nisida. Bisognava urgentemente procurarsi della decente carta da regalo per metterci un oggettino di ceramica per Marianna Scalfaro visto che, la mattina dopo, sul presto, il Presidente della Repubblica, a Napoli per il G7, sarebbe venuto, con la figlia, a sentir messa da noi.
Non era la prima volta che Scafaro veniva a Nisida e non sarebbe stata l’ultima. Gli piaceva stare a parlare con i ragazzi, una volta si chiuse con loro nel refettorio, fuori tutti, dal direttore al servizio di scorta, tutti che andavano avanti e indietro, nervosi, nel piazzale H. Pratt, e lui dentro a ridere e scherzare con i vari Antonio, Giovanni e Giuseppe.
Quella domenica, il cielo era di un azzurro assoluto, il caldo senz’afa. Un incanto.
Avevano messo su, nel cortile, un altare protetto da un grande ombrellone e un altro ombrellone stava disposto sulla sinistra. Da lì fece l’omelia – bella, bellissima – il cappellano, don Paolo Auricchio. Non c’era alito di vento. L’aria immobile, ma tersa e luminosa.
Sotto quello stesso ombrellone, iniziò a parlare il Presidente.
Ad un certo punto, senza preavviso alcuno, s’alzò un’onda di vento potente, violentissima, e scalzò l’asta di ferro che reggeva l’ombrellone.
Fu un attimo. Vidi un cereo pallore scendere sul volto delle autorità presenti. Non c’era chi, come me, non pensasse, con orrore: ecco, il Presidente sta morendo davanti agli occhi nostri. Nessuno si mosse.
Umberto Improta, prefetto, un corpo massiccio che faceva pensare, magari, ad una certa difficoltà di muoversi velocemente, fece un balzo da ghepardo, ponendosi all’ultimo istante tra l’asta e il Presidente.
Non è che uno dei miei tantissimi ricordi “su Nisida e il Presidente Scalfaro” (che più volte ci ha anche ospitato al Quirinale).

P.s Durante la sua prima visita, il 21 novembre del 92, il Presidente Scalfaro tenne un discorso a braccio - da noi riportato poi integralmente in un numero speciale di Nisida News nel quale, tra l'altro affermò: "Sapete perché sono qua? Certo che sarei venuto una volta o l'altra, però rendo testimonianza a persona che stimo altissimamente e della quale sono amico, il Presidente della Camera dei Deputati, on. Napolitano, che con estrema delicatezza, mentre io gli dicevo: vado a Napoli, non posso andare a Napoli alla commemorazione che ci sarà lunedì del filosofo, famosissimo, Benedetto Croce, scendere dall'aereo, andare e ripartire, questo non mi pare che sia rispettoso per Napoli. (...) e allora l'on. Napolitano, con la delicatezza che gli è propria, mi ha detto: ma per caso vai dai giovani a Nisida...no, ho detto, questa volta non ci sta; sì, lo credo, ha detto, poi andrai altre volte... Eppure, questo l'ha detto con tale delicatezza che io ho detto al segretario generale che è con me, ho detto: io devo andare, devo andare..."

giovedì 26 gennaio 2012

L'insopportabile silenzio dell'intelligenza


In un articolo sul Corriere del Mezzogiorno, intitolato La rivolta sudista dei forconi e un disastro chiamato Sicilia, Adolfo Scotto di Luzio scrive: “E’ in Sicilia infine, e non in Campania o in Puglia, che ha preso forma il Partito del Sud, vale dire il progetto di una rappresentanza di interessi meridionali a base recriminatoria-risarcitiva”. Dopo rapidi cenni sulla base teorica del movimento, ovvero sui libri che darebbero “ragioni storiche irrefutabili alla nuova protesta meridionale”, sugli smottamenti partitici, le crisi di consenso e i movimenti di intessi e, quindi, sulla “gigantesca confusione che regna sotto il cielo del Sud”, dove “molte avventure verranno tentate”, Scotto di Luzio conclude: “Di fronte a questo movimento che affonda le sue radici nel disastro politico-clientelare di una regione carica di privilegi sempre più incomprensibili e che riconsegna tutto il Sud ad un immutabile destino ribellistico e tumultuario, si fa più acuto il silenzio dell’intelligenza e della politica meridionale. Nei mercati deserti di merci di Palermo, nei distributori senza benzina, lungo le code kilometriche di un paese paralizzato, la grande assente è proprio la capacità di pensare il Sud come parte di una storia moderna e unitaria”. Contro la “più generale dismissione intellettuale in atto”, la risposta, da parte delle “forze residue della tradizione moderna della politica e della cultura meridionale”, non può che essere “riprendere i fili di un discorso sull’Italia”.
Conclusione cui aggiungerei tre parole: “e sull’Europa”.

mercoledì 25 gennaio 2012

Crespelle a 'vento



“No, il forno no”. Voleva essere un’intimazione scherzosa, ma io mi irrigidii al mezzo urlo di mio padre. Avevo quindici anni ed una certa facilità ad avvertire rimproveri anche dove non ce n’erano. Mia madre non sapeva se dare prima della cretina a me o dello stupido a mio padre. Che si giustificò: “Ma come, lo dicono alla pubblicità”. (Era una reclame, se ricordo bene, di un qualche prodotto per pulire le incrostazioni dei forni). Anche se il cuore stava ancora accelerato, Mariella si risolse a sorridere e ad aprire il forno. Dentro, per sottrarli ad eventuali formiche, c’erano allineati i dodici piattini di ceramica del servizio da caffè da bambole che era stato il suo ultimo regalo della Befana: in nulla diverso da un servizio normale, se non fosse per il decoro infantile, con un bambinetto con cappellino a barca in testa che tirava su dal mare un pesce con una lenza. Finito il suo, il padre disse: “Prendimelo, un altro piattino”. Disporre la pignolata in piccole dosi, era il tentativo di non farla finire subito: ma una pallina, tirava l’altra.
Dalle mie parti, Carnevale non aveva una gran fama. Nu carnuluvari paratu ‘a dritta: bastava dire così per significare la stupidità grande di qualcuno. In verità, i vecchi qualche volta si lasciavano scappare quanto s’erano divertiti, in gioventù, certi carnevali, con certi scherzi, mentre le donne anziane sviavano ricordi che richiamavano in loro parole e gesti dei mariti entrambi volgari: di quelli che, frutto dell’ubriachezza e/o della momentanea follia, era meglio nascondere e, possibilmente, dimenticare.
Ma, nelle stesse domeniche in cui l’odore della salsa di carne di maiale tirata per ore per condire i maccheroni impregnava i valloni, ogni brava padrona di casa friggeva migliaia di palline di pignolata. (Nelle pasticcerie, con lo stesso nome, si vendevano spaselle di pallottole glassate di zucchero e di cioccolato: composizioni in bianco e nero, bellissime da vedere, per me troppo dolci e azzeccose da mangiare). Oppure, con un impasto simile ma più “duro”, tirava la sfoglia e la tagliava in strisce sottili da friggere rapidamente. Non potrei dire che il termine napoletano “chiacchiere” non sia adeguato alla conversazione che, una dopo l’altra, possono favorire. Ma non riesce a esprimere il mondo che sta nel reggino: crispedde ‘a ‘ventu. Dove i momenti supremi di gioia delle vigilie di Natale e Capodanno – esaltati dalle crespelle fumanti – si fa vento: soffio, respiro, delicata incorporeità dell’aria.
Non mi stupirei che sia stata qualche servetta reggina, finita in casa di qualche barone napoletano, a portarvi la pignolata, poi rielaborata ed arricchita, talvolta in architetture quasi barocche, nei natalizi struffoli. E, naturalmente, anche le chiacchiere. Fermo restando, che le crispedde ‘a vento portano, anche nel nome, ben altro profumo.

Contrariamente a quanto molti ritengono, sono convinta che la fase Regno delle Due Sicilie non abbia avuto effetti positivi sulla Calabria. La capitale ha avuto il (poco) meglio borbonico, facendolo pagare (anche) alla mia terra. E’ un aspetto marginale e su cui non ho prove, ma non mi stupirei che anche famose ricette napoletane, come gli struffoli e le chiacchiere, non siano nate a Napoli, ma in luoghi più poveri e più a Sud, da cui poi sono state riprese e arricchite.

E’ l’argomento di mio un racconto pubblicato da Zoomsud, col titolo Le crispelle ‘a vento. E il vento dei ricordi e del mare lontano

domenica 22 gennaio 2012

La caserma della buganvillea, tre storie per il maresciallo Martina Neri

Natale con delitto



Una sciarpa di garza leggera lasciata scivolare dal capo alle spalle – il pomeriggio era tiepido e terso – il maresciallo Martina Neri percorreva il bagnasciuga a passi regolari, lasciandosi avvolgere nell’abbraccio quieto dell’ampia solitudine del mare invernale. Sulla spiaggia non c’era che un vecchio;  stava avvolgendo il filo della lenza, dopo aver fatto scivolare un'opa in un secchio di plastica blu. Nell’aria, sembrava materializzarsi quel senso di sospensione che per secoli (prima dell’oppio consumista degli ultimi decenni) doveva aver costituito la magia della festa: la percezione di un mistero, l’abbandono alla sapienza della vita. Nelle cucine, nei salotti, nei tinelli, il resto del paese ancora banchettava.

Il suo era stato un pranzo sobrio – una lasagna leggera, preceduta da julienne di verdura e seguita da un petrale bagnato in un rosso corposo – consumato ad un tavolo su cui, con un certo garbo, erano addossati un piccolo presepe con le statuine di terracotta colorata, un alberello minuscolo, un vaso di stelle bianche e rosse, una boccia trasparente colma di melograni, due vassoi di frutta, fresca e secca e, al centro, ‘a ‘cuddura di pane ricoperta da granelli di sesamo.

Con due piccole bugie – alla madre, che viveva a metà strada tra lei e il fratello: andasse da lui e dalle nipotine, tanto lei era di servizio; al brigadiere Ciccio Putortì: non poteva accettare l’invito suo e della gentile consorte, perché ospite di un’amica di famiglia, in un paese vicino – il maresciallo aveva pensato di garantirsi un Natale solitario.

Aveva passato la sera della Vigilia in vestaglia, riordinando appunti e pensieri, come per un’esigenza di leggerezza e pulizia del cuore. Il bilancio del suo primo anno nella caserma della grande buganvillea poteva essere considerato positivo. Non solo erano riusciti ad arrestare un capetto ‘ndranghetista da anni latitante, ma stavano a un passo dal chiudere il cerchio su due insospettabili della “zona grigia”, su cui avevano accumulato faldoni di prove. Ma cominciava ad avvertire una stanchezza dell’anima, cui doveva per qualche ora abbandonarsi per non esserne del tutto sopraffatta, come quando lo slancio d’adrenalina, privo di nuova carica,  si sfalda in polvere di tristezza. Aveva dormito appena qualche ora, agitata dal non aver dovuto mettere la sveglia. A metà della mattinata, un pensiero l’aveva attraversata lasciandole una scia di vago turbamento. Diciassette anni prima, qualcuno l’aveva chiesta in moglie. Un ragazzo gentile, di cui non ricordava né il nome né il volto. Gli aveva detto un “no”, chiaro e contorto. Ingenua e inesperta, aveva provato a trovare scuse che non la scoprissero né lo umiliassero.  La verità era che aveva in mente uno che neppure le badava. Due anni dopo, un pranzo di Natale – cui erano presenti anche nonni e  zii e non era mancata nessuna delle dodici portate della tradizione – avrebbe dovuto preludere al matrimonio con quell’uno, che aveva poi scelto una ragazza di minor peso e di maggiori beni. Poi, nessuno s’era accorto di lei e lei nessuno aveva cercato.

Una nave container, scorrendo lungo la linea dell’orizzonte, agitò le onde. Uno spruzzo d’acqua la raggiunse alle gambe, restituendola al presente. Il vecchio se n’era andato. Martina Neri era rimasta sola, unica spettatrice d’un tramonto sfolgorante. Sprofondò nei rossi e nei gialli striati di grigi e di fucsia e cercò di rimanere immobile dentro tanta bellezza. A scuoterla fu la suoneria del cellulare. Il brigadiere, urgentemente cercato da un appuntato, aveva visto la sua utilitaria ferma davanti casa e aveva concluso che il maresciallo, fosse o meno andata via in mattinata, ora stava lì. Il tono voleva essere gentile e, ancor più, di richiesta e preghiera, ma risultò imperativo.

Il maresciallo  non si concesse il tempo di un ultimo sguardo al mare e rapidamente s’avviò verso la caserma, incontrando presto la macchina dei carabinieri che le era stata inviata incontro. Ciccio Putortì – che aveva sperato in una serata tranquilla per digerire i cannelloni al ragù, l’agnello con le patate, la salsiccia e il pandoro alla crema di mascarpone, una specialità della moglie, e le cassatine di ricotta ricoperte di glassa, che sua madre aveva appreso da una zia siciliana – le riferì il poco che aveva raccolto. Il morto era una donna di settanta anni, madre di cinque figli, vedova – dato, quest’ultimo, di nessun significato visto che la pressoché totalità delle donne in età lo era; spesso al maresciallo veniva in mente che quello era un paese di sole donne/donne  sole: vedove e badanti. Viveva nello stesso palazzo in cui abitavano due figlie  e un figlio; gli altri due stavano a Milano e si vedevano  in paese per due settimane ad agosto, uno con moglie e figli, l’altro sempre solo, perché la moglie trovava luogo e parentela poco adeguati ai suoi gusti. La defunta signora Assunta  aveva pranzato con il figlio, la nuora, i genitori e una sorella della nuora, mentre le due figlie stavano dalle rispettive suocere. Pareva che con entrambe ci fossero degli screzi non solo per la divisione di piccole proprietà che appartenevano o di cui era usufruttuaria la madre, ma anche perché le due donne le rimproveravano di passare la sua pensione, sotto forma di regali ai due nipoti, a Giuseppe: il primo maschio, il prediletto. Assunta, scesa nel suo appartamento per serrare le persiane lasciate socchiuse, non era più risalita. L’avevano trovata riversa sul pavimento della camera da letto. Il medico, chiamato a certificare un infarto o altra causa che potesse spiegare sì improvvisa dipartita, aveva invece scritto e firmato: sospetto strangolamento.

La casa, tre piani oltre l’appartamento a livello di strada della morta, stava a metà di un torrente, che sboccava nel più grande sottopasso del paese. Benché il portone fosse aperto, per le scale stagnava un olezzo di cibi dolci e salati che, singolarmente paradisiaci, diventavano una mescolanza nauseabonda. La nuora della morta sovrintendeva alla frettolosa rigovernatura della cucina, cui si stavano affaticando una sorella e due vicine. Il figlio, più che affranto dall’improvviso evento, sembrava snervato e offeso dall’ipotesi che non si trattasse di morte naturale e lo ripeteva, a voce più alta, ad ogni sopraggiunto parente. Delle due sorelle, era arrivata solo Graziella, che, lo sguardo attonito, s’era piegata sulla madre senza sfiorarla e s’era poi deposta su una poltrona al suo lato, alternando momenti di inebetito silenzio a raffiche di parole veloci e sconnesse. Paola entrò come una diva su un palcoscenico di provincia. Gettò sulla sedia un cappotto di visone – che ci voleva coraggio a tenersi addosso a quella temperatura – scoprendo, sul tubino aderente, una serie di collane. Martina Neri non si intendeva di gioielli, ma non ebbe dubbi che i monili al collo, e quelli alle orecchie e alle braccia, rappresentassero un valore economico, se non estetico, di grosso pregio.
Il maresciallo – che s’era immaginata una messa serale in un paese vicino seguita da ore tiepide di vestaglia, appunti e pensieri – porse al brigadiere la lista con la sequenza dei primi interrogatori. Avrebbe passato quel che restava del Natale a cercare l’autore di un delitto, anzi del primo delitto natalizio della sua carriera. Non fosse di nuovo in servizio, sarebbe scoppiata a ridere. In fondo, neppure questa volta le era riuscito di dire una bugia alla madre.


Le ricamatrici



Che Lillina e Marianna non fossero ricche, in paese lo sapevano tutti. Le due sorelle, rimaste orfane quando avevano l’una ventanni e l’altra ventidue – nel mezzo c’era un fratello che sarebbe morto trentanni dopo – non s’erano mai sposate. Avevano lavorato di cucito e ricamo e, ormai anziane, a consentirgli una vita decorosa non erano tanto le aggiunte alla parca pensione dei piccoli aggiusti d’orli e di pieghe, quanto l’abitudine a farsi bastare un poco molto vicino al niente. Sottili da sempre, s’erano fatte minute e quasi trasparenti, simili nello sguardo incerto e nei movimenti insicuri a uccellini implumi. Quando, tornate dall’abituale messa pomeridiana del primo venerdì, avevano trovato la casa sottosopra, s’erano sentite violate nella loro intimità pudica e dignitosa – le lenzuola di corredo gettate a terra, da candeggiare decine di volte prima di poterle di nuovo riporre nell’armadio – ma non avevano temuto grandi perdite. In casa, nulla c’era di valore da poter rubare.

Martina Neri era da pochi mesi alla guida della piccola caserma dei carabinieri, che stava in fondo al paese, tra due alti pini marini per metà ricoperti da una buganvillea che faceva da arco sul portone, legando i due in un solo albero. Quarantenne, un corpo agile nonostante i novanta chili e più, i grandi occhi marroni esaltati da un finto biondo, unica civetteria che si concedeva, se non era in divisa, stava in tuta e scarpette da ginnastica, pronta sempre a qualche giro di marcia sul lungomare o per le colline intorno. S’era ben presto fatta sui paesani un’idea precisa, cui ogni giorno aggiungeva particolari e sfumature. Due famiglie di ‘ndrangheta, dopo lotte feroci, gestivano insieme gli (scarsi) affari della zona. Tre affiliati – di cui uno seriamente malato – stavano agli arresti domiciliari, sottoposti a controlli a sorpresa. C’erano poi una diecina di sospettabili di questa o quella connessione malavitosa, ma senza prove. Per il resto, piccoli screzi tra vicini, liti familiari per eredità, vecchie storie di corna e di tradimenti, tutte ruotanti intorno a badanti, assurte da povere disgraziate a nuove icone erotiche.

Il brigadiere Ciccio Putortì, che le aveva dato sempre buoni consigli, concordò con lei che l’ipotesi d’un balordo di passaggio non stava in piedi e che a entrare nella casa delle sorelle Labate era stato qualcuno che le conosceva bene e, pertanto, non cercava il denaro che non c’era, bensì altro. Che cosa? A saperlo. Due giorni dopo, il maresciallo Martina Neri, essendo in quel momento sola nella stanza, non dovette sforzarsi di controllare lo stupore all’arrivo, dalla caserma di un paese vicino, di un fax. Avevano arrestato un piccolo pregiudicato col malloppo sottratto alle signorine Labate. Rilesse la cifra per precauzione: diecimila euro.

“Accomodatevi”. Lillina e Marianna l’accolsero timide e vergognose, come fosse colpa loro aver provocato al maresciallo il fastidio d’una visita. S’affrettarono a porgerle una sedia e a prepararle un caffè, servito in una tazzina di porcellana a decori blu, con accanto un piattino colmo di  pasticcini e cioccolatini, inframmezzati di confetti azzurri. “Hanno battezzato il nipotino di Gesualdo, il nostro vicino”, dissero: per spiegare e, forse, scusarsi, di tante leccornie. Non ci volle più di qualche secondo al maresciallo Neri per confermarsi nella convinzione che le due sorelle nulla sapevano di quei soldi. Erano, però, abbastanza i motivi per considerare credibile l’arrestato. Il filo per sbrogliare la matassa poteva essere solo uno: Pasquale Smorto, l’unico parente delle signorine che le andava a trovare con regolarità. Figlio d’una nipote della madre, aveva una trentina d’anni e lavorava da dieci come commesso di un negozio di orologi che da qualche tempo s’era trasferito in un centro commerciale; era incensurato.

Pacata e lucida nel lavoro, in privato Martina Neri era di temperamento romantico, leggeva romanzoni sentimentali e non disdegnava qualche telenovela anni ottanta – ne aveva una serie registrata – che seguiva con rilassata attenzione, mentre la mente collegava e scollegava piccoli indizi in cerca di qualche prova. Le servirono cinque puntate di seguito di una stramba storia –  d’una seconda moglie che alla fine aspettava un figlio da un marito che non avrebbe potuto averne –  per farsi un’idea che la convincesse.

Che fosse quella giusta lo vide negli occhi di Pasquale Smorto che, avvampando d’essere stato scoperto, ritenne fosse il momento di confessare. Gli mancava un esame per laurearsi in Archeologia. I soldi da commesso li dava in casa, ma quelli che guadagnava facendo da più di un decennio il barista di notte, venerdì, sabato e domenica, in un locale sulla costa, li nascondeva in casa delle prozie. Erano la sua riserva per un sogno. Morto suo padre, era rimasto un pezzo di proprietà che nessuno coltivava più: c’erano solo rovi. L’avrebbe scavato. Prendere con le sue mani, ancora sepolta di terra una statuetta greca, una sola. Se c’era una pienezza per la sua vita, lo aspettava lì.


La cena in fiamme


Alle otto di sera di una domenica di gennaio fredda e tersa, il maresciallo Martina Neri apparecchiò, su una tovaglietta a quadrettoni rossi, una succulenta pasta aglio e olio. Alla terza forchettata, mentre assaporava il bruciore del peperoncino sulle labbra, un’esplosione fragorosa sembrò frantumare i vetri. Avrebbe volentieri infilato sulla tuta gli stivaletti al polpaccio e un giacchettone pesante, che stavano sempre pronti all’ingresso, per precipitarsi di volata per le scale. Ma il gambaletto di gesso che le fermava la rottura del v metatarso del piede sinistro, le permise solo di affacciarsi alla porta-finestra della cucina, telefonando, alternativamente e senza risposta, in caserma e ai vigili del fuoco.

Le fiamme, alte, che si scorgevano a metà della strada, poco più d’una mulattiera, che portava dal mare alla collina del cimitero, spostavano l’ipotesi che le si era per un istante affacciata – esplosione di una bomba – sul versante esplosione d’una bombola, senza diminuire, però, le probabilità di vittime.

Una accanto all’altra, due unite da una parete comune, tre separate lo spazio d’un oleandro giovane, c’erano cinque casette vecchie, non dissimili da quelle di antichi presepi. Una appariva quasi distrutta e il fuoco, che continuava a sfaldarla e ad accartocciarla, stava passando al tetto della casa gemella. Nell’aria si spandeva un sentore acre di pece e, per terra, i frammenti dei vetri delle macchine parcheggiate nello spiazzo antistante le fiamme. Per primo arrivò Andrea Malara, giovane cronista di punta di una tv locale, poi la camionetta dei carabinieri – vide il brigadiere Ciccio Putortì che s’inoltrava nel fumo – seguita da Giuseppina Dascola, corrispondente di un quotidiano, in compagnia di Piero Laganà, fotografo. Per ultimi giunsero i vigili, costretti a girare più volte nel labirinto delle stradine, ma rapidi nell’evitare che il fuoco, che cresceva velocemente – fortuna che non c’era vento – attaccasse la cucina della seconda casa, provocando l’esplosione d’una seconda bombola.

Giuseppina Dascola, un cappottino nero due misure più grandi delle sue ridotte dimensioni, avrebbe visibilmente preferito stare altrove. Andrea Malara, come rassegnato a tutta una notte di passi lenti, andava avanti e indietro, parlando ininterrottamente al cellulare, non si capiva se per dare o ricevere informazioni. Sul sito della sua emittente – la prima a dare la notizia dell’esplosione – apparvero ben presto i particolari. Vi si diceva che erano morte due persone, il padrone di casa, che aveva orchestrato uno spettacolare suicidio, e, forse, un’altra persona, ancora non identificata.
Martina Neri, già infastidita dal non guidare personalmente le indagini, ne ebbe un moto di repulsa e di indignazione. Che il signor Luigi Ficara, proprietario di quella casa, avesse deciso di suicidarsi le pareva molto improbabile. Di poche parole e modi spicci, si poteva anche immaginare avesse qualche problema familiare ed economico – più o meno come tutti – ma non ce lo vedeva proprio a sceneggiare un’autodistruzione così allargata. E, comunque, per rispetto ai familiari, non si poteva gettare fango sullo strazio della famiglia.

La rabbia, che s’avvitava su se stessa come zucchero filato andato a male, sfumò alla telefonata di Malara. Declinò il suo invito ad una qualche dichiarazione, ma ne approfittò per avere informazioni. Il cronista le disse che, a parlare di suicidio, era stata la moglie che, tornata da una visita ad una sorella in una contrada vicina e trovandosi di fronte a quel disfacimento della sua casa, aveva cominciato ad inveire contro un uomo che, a sentirla, non ne aveva mai indovinata una e, ora, come ultimo dispetto, facendole il favore di renderla vedova, la sfregiava, però, privandola di un tetto. Quanto al secondo morto – già sparito dalle notizie flash del sito – era tutto un equivoco. La signora Rosa Libri aveva visto da quelle parti, nel pomeriggio, Luisanna Bova che s’era temuto potesse essere stata, in qualche modo, colpita dalla deflagrazione, finché Mariano Riggio non aveva assicurato d’averla vista salire su un pullman diretto in città almeno un’ora prima dello scoppio.
Fino a quel momento, Martina Neri aveva messo al primo posto nelle ipotesi una fuga di gas – chissà, una bombola difettosa, comprata di stramacchio, che aveva saturato la casa per ore e ore e, poi, provocato la deflagrazione quando il povero Luigi Ficara aveva girato la chiave nella toppa e aveva, da fuori, acceso la luce. Ma quel riferimento a Luisanna le esplose, in mente, girandole di pensieri. Di Luisanna Bova, in paese, a bocca piena si diceva ch’era pazza. Poi la voce s’abbassava, le labbra si storcevano in una smorfia di incredula perplessità e si accennava appena a qualche suo nuovo colpo di testa. Tutto era cominciato quando aveva rifiutato un fidanzato fortemente consigliatole dal fratello. A lei quel ragazzo bruno, alto, dagli occhi di brace ardente non dispiaceva, ma ogni volta che se lo trovava di fronte, avvertiva come l’allarme di un pericolo, di cui aveva colto la concretezza una notte di luna piena sul mare. Non riuscendo a dormire, s’era messa a camminare in camera sua, al buio e, da lì, aveva intravisto movimenti che le lasciarono pochi dubbi sul fatto che trafficasse in qualcosa, armi o droga, o, magari, tutt’e due. Pochi giorni dopo, don Mico ‘u longu – nessuno osava neppure sfiorare con la propria voce il suo cognome – le aveva fatto recapitare, da uno scagnozzo, tutto il suo disprezzo, per poi grandinarle di persona, in una curva stretta, un vocabolario che da puttana iniziava e a troia finiva. Luisanna non capì in che cosa avesse creato disturbo, ma prese la via della caserma, che molte altre volte avrebbe ripercorso, riempiendo faldoni di denunce per illegalità evidenti, che nessuno, però, vedeva. Non viveva più in paese da tempo, ma talvolta vi passava la domenica pomeriggio in una casetta ereditata da una lontana zia. Anche quella, a suo tempo, definita, in paese, pazza, perché aveva rifiutato le violente attenzioni dello zio di don Mico, rassegnandosi, poi – giacché nessuno aveva trovato il coraggio di sposarla – ad una vita da zitella.

Per ore, Martina Neri rimase seduta dietro la finestra della sua cucina, le fiamme che continuavano a crepitare, il fumo sempre più alto, vigili, carabinieri e cronisti, sempre lì, ognuno al suo lavoro e, per il resto, solitudine e silenzio. Nessuna piccola folla, niente curiosi e, oltre il rumore dei motori che alimentavano le pompe di spegnimento, quasi nessun brusìo. Alle quattro del mattino, quando vide arrivare una nuova macchina dei carabinieri, non ebbe dubbi che il brigadiere Ciccio Putortì, prima di andarsi a buttare qualche ora su un letto, sarebbe prima passato ad aggiornarla. Tirò perciò fuori da una credenza dei biscotti all’anice e accese il fuoco per il caffè. Il brigadiere lasciò i biscotti e chiese del latte caldo in cui versò le tre tazzine della macchinetta. Fece poi una lista dei fatti: il morto l’avevano trovato riverso ai bordi della strada opposti alla casa. Forse, aveva acceso la luce prima ancora di varcare la soglia. La bombola in cucina doveva essere difettosa. La moglie, dopo i primi improperi, pareva entrata in uno stato di catalessi ed era stata portata via da alcune vicine. I due figli, che abitavano entrambi al Nord, erano stati avvertiti. Il giudice Paolo Borzumati in rapido giro, non aveva detto quasi nulla, ma pareva escludere che ci fosse qualcosa di più o di diverso da una morte casuale, con annessa ipotesi di reato per il malfunzionamento della bombola e presumibile guerra degli eredi per un debito risarcimento. “La cosa più strana è che non più di un’ora prima dello scoppio, da quelle parti c’era Luisanna Bova…”.

Quando il maresciallo Neri tornò al lavoro, l’inchiesta per la casa bruciata – quelle pietre scomposte e dolenti le rovinavano una visuale che, in precedenza, aveva trovato sempre calmante – stava per chiudersi avvalorando le ipotesi del giudice Borzumati. Che fossero le più logiche, né il maresciallo né il brigadiere avevano dubbi. Ma, poiché entrambi erano convinti che, a comprendere le umane cose, la logica non basta, nel tempo libero, continuarono ad occuparsi del caso. Non ricavarono molto finché non scoprirono che la moglie del morto era stata battezzata dalla madre del mancato fidanzato di Luisanna. Che stava ora in galera, con un cumulo di pena di anni quindici, suscettibili di aumento con il proseguire delle inchieste. Era stata Anna Fichera, cugina della zia di Luisanna, a invitarla a cena per le 20.30 – “Mio marito va alla partita, di pomeriggio, poi ti accompagniamo noi a casa” – con la scusa di darle certi lavori all’uncinetto che aveva trovato, insieme a certe foto della zia. Ed era stata lei ad allentare la bombola, pensando che, al suono del campanello, qualcosa sarebbe successo e gli anni di galera del suo comparello non sarebbero cresciuti troppo.
Prima di andare a parlare col giudice, Martina Neri andò a comprare dei fiori nel negozio con cui Luisanna campava da una diecina d’anni e le chiese com’è che, arrivata in paese, se ne fosse andata prima della cena. Occhi nerissimi nel volto pallido, i capelli tirati indietro e il collo coperto da una sciarpa nera con su appuntato un fiore di feltro color ruggine, Luisanna fece un gesto come per dire: “Non lo so”, poi ci pensò su e rispose: “C’è un attimo che mi cambia il tempo. Prima e dopo, tutto è normale, opaco, ma in quell’istante l’aria che entra nelle narici mi gela i capillari e il nervo sull’occhio sinistro si fa brace fino alla nuca. Quello, per me, è il momento di scappare”.


Pubblicate su Zoomsud:




Vestiti da lavoro


Una mia amica fb scrive, di essere stata redarguita al lavoro da una collega per il suo vestitino di maglia, attillato e al ginocchio. Seguono, a questo suo “stato”, una settantina di commenti. Tutti bocciano la collega, in quanto irretita dall’apparenza e non dalla sostanza, e si dichiarano a favore della scrivente. Come capita spesso per le amicizie fb, non conosco di persona la signora in questione, ma le cose che scrive sono tra quelle che leggo più volentieri: intelligenti, briose, ironiche, sensibili, profonde, cordiali, divertenti.

La cosa accade qualche giorno dopo la pubblicazione, su La 27 ora, un interessante blog del Corriere della Sera, di un intelligente post di Daniela Monti intitolato Prada, gli abiti maschili, il potere. E un dubbio su come si vestono le donne. Vi si legge, tra l’altro: «L’abito maschile è uno straordinario strumento di potere, ne è la sintesi, il timbro sulla carta, la certificazione. E l’abito femminile? “Nel mio lavoro cerco di conferire importanza alle donne e di addolcire gli uomini” incalza Prada, ammettendo che la strada per far acquisire potere reale alle donne, anche attraverso gli abiti, è ancora lunga. Il discorso mi pare interessante perché la moda troppo spesso è relegata per le attività ludiche, fra i superflui piaceri della vita, confinata sul carrello dei dolci, a cui si può a cuor leggero rinunciare, quando invece è un piatto principale del menù. Così arrivo alla seconda domanda: le donne possono limitarsi a rivendicazioni sulla parità degli stipendi e delle occasioni di lavoro o devono anche occuparsi di creare un’immagine che non sia semplicemente la traslitterazione dello sguardo maschile su di noi?».

Non ho molti titoli, anzi nessuno, per discutere del ben vestire. Ma trovo fastidioso – in sede di lavoro – vedere donne troppo scoperte, troppo truccate, troppo ingioiellate, su trampoli che qualche santo ci scansi da un terremoto o altra necessità di passi veloci.

venerdì 20 gennaio 2012

Spigolature


Un’inchiesta conferma che gli italiani leggono meno. A giudicare da certi strafalcioni grammaticali e sintattici che è vi dato vedere, viene da pensare che alcuni libri non li legge neppure chi li ha scritti (e, tantomeno, chi ne dovrebbe correggere le bozze).

Il “blocco” della Sicilia. Diceva un poeta che “su tutto si può mentire meno che sullo stile”. Quale buon rinnovamento del Paese potrebbe mai venire da quella che si autodefinisce “rivolta dei forconi?”

E’ ufficiale: si va verso la nomina di una commissione d’accesso ‘anti ‘ndrangheta al Comune di Reggio Calabria: e, nei siti dei giornali nazionali, la notizia non si vede. Un silenzio inquietante.

mercoledì 18 gennaio 2012

La "Statale 18" di Mauro Francesco Minervino


 
“Vivere nel brutto senza accorgersi che è brutto, è possibile”. Certo, non per Mauro Francesco Minervino, scrittore, notista, professore di Antropologia Culturale ed Etnologia, una buona parte della giornata vissuta in macchina, negli spostamenti tra Paola, dove vive, e Catanzaro, dove insegna. Ad allenare il suo sguardo “…sono i 120 chilometri all’andata, al mattino presto, i 120 al ritorno della sera”, passati sulla statale 18, “ancora oggi la più importante arteria di collegamento tra la Campania e la Calabria”, “la strada che ha visto trasformarsi il paesaggio e la vita della Calabria tirrenica in quella frangia continua e disordinata di cemento e asfalto che oggi vede lo scempio macrofisico e microfisico del fai da te della speculazione immobiliare e dell’abusivismo saldamente in mano a mafie e privati”: “In mezzo alla statale 18, insomma, corre un mondo e una vita che fermenta come il mosto di una cattiva vendemmia. Qui c’è tutto quello che sta a sud di Gomorra”.

Con le 500 mila persone circa che l’attraversano, il “nastro d’asfalto” della statale 18 “è anche l’unica vera grande città della Calabria moderna”, un paesaggio di cemento informe, cantieri sempre aperti, suolo occupato sgangheratamente da case irrimediabilmente brutte, apoteosi di uno sviluppo senza qualità, dovunque abusivismo e scempio, la frantumazione d’una cultura di comunità frugale e misurata, la distruzione della campagna, l’avvelenamento del mare: un supplizio per gli occhi e la mente che ricordano ben altri presepi.

“Davanti a questo inarrestabile disastro, all’aggressione alla salute, alla dignità della gente, alla bellezza dei paesaggi e del mare guastati dalla squallida edilizia della ‘città stradale’ che si stende come un funebre lenzuolo di cemento sulla SS18, a volte vorrei davvero invocare la mano di Dio. Una maledizione terribile, un salmo da Qolet, uno tsunami gentile che dal mare si abbatta sullo sporco che orla la terra per scioglierlo come un enorme twist di lavatrice. Un terremoto selettivo che inghiotta tutto il marcio di adesso e lasci in piedi solo povere cose, solo quello che c’era prima”.

Dice Minervino: “La Calabria che amo per me dovrebbe essere ancora così, dovrebbe essere questa: sole, vento e roccia, acque calme e scompigli di tempeste, vulcani impressionanti, cime verdissime, panorami sbalzati da un incantesimo ultraterreno. E oltre ogni cosa confinata in terra, un mare potente e ammaliante che si estende a perdita d’occhio. Natura intoccabile che basta a se stessa. Niente strade. Niente che faccia posto agli usurpanti, niente cemento, niente abitanti, niente turisti. Un eden estremo, indomito e brutale. Un eden tutto per me”.

Se questo è il sogno del cuore per sé, la risposta di carattere sociale Minervino la indica nell’abbandono dell’‘ideologia del progresso’ a favore dell’‘ideologia dei limiti’, della sostenibilità ambientale, ovvero nel “coniugare estetica e politica per riportare la bellezza nei nostri interessi e nel nostro ambiente, per restituire efficacia e consapevolezza al nostro abitare i luoghi. La storia della bellezza in Calabria ci dimostra che essa è efficace anche nella sfera dell’utile. (…) Il centro del costruire, del fare anima sui luoghi, è un interesse umano generale, che si afferma solo quando l’architettura si pone come risposta al dimorare dell’uomo in armonia con la natura”.

E non si può tornare al bello se non accettando, come si osservava all’inizio, di guardare a fondo il brutto: “una forma di carità, di passione attiva e partecipe che vuole redimere la vita così com’è, non come ci piacerebbe fosse”.

Statale 18, edito da Fandango, è un lungo racconto-diario-saggio- che torna e ritorna, insistentemente, sullo stesso tema: l’ambiente calabrese, il suo terribile degrado, il permanere, nonostante tutto, di squarci di stupefacente bellezza, la sfiducia che qualcosa possa davvero cambiare e l’impossibilità di adeguarsi a tale disperazione. Un urlo, una poesia, un atto appassionato di geloso e furente amore per la terra di Calabria.

Non si parla, se non marginalmente, di persone, in questo libro, ma solo di terra, mare, campagne, case e, soprattutto, di una strada. Con la sottesa convinzione che, per ottenere sviluppo economico e umane condizioni di vita, per ritrovare le ragioni di una solidale comunità, “basterebbe in fondo amare i luoghi, voler bene davvero alla terra, la propria”.

Pubblicato su Zoomsud:

Su Zoomsud è apparsa anche la recensione a Banditi e Briganti di E. Ciconte
http://www.zoomsud.it/index.php?option=com_content&view=article&id=26220:la-recensione-banditi-e-briganti-di-e-ciconte&catid=74:commenti&Itemid=75

lunedì 16 gennaio 2012

Gli articoli di Elsa Fornero


«Le istituzioni italiane, compreso il mercato, portano a escludere il lavoro delle donne. Così non si va avanti. Bisogna organizzare meglio il mercato del lavoro, per avere più inclusione dei giovani, delle donne e dei più anziani, gli over 50, superando le distanze tra nord e sud. Ci delle trattative in corso sul mercato del lavoro. L’occupazione femminile non è un dato offerto dal destino, ma il frutto dell’organizzazione del nostro mercato del lavoro. Noi abbiamo un problema di occupazione tout court. Ma i giovani hanno un’estrema difficoltà a trovare occupazione, come le donne di tutte le età e le persone con poco più di 50 anni. Questo è uno strano Paese, in cui si pensa che una persona che ha poco più di 50 anni sia da considerare persa per il mercato del lavoro: è un’assurdità».

A me Elsa Fornero sta molto simpatica. E mi piacciono le sue incursioni, da ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, anche negli usi linguistici in atto. Il giornalistico “la Fornero” – «Non mi piace quando dite “la Fornero”. Dite “Fornero” e basta, come dite “Monti” – è davvero insopportabile. Alla mia generazione, avevano insegnato che l’articolo seguito dal cognome poteva andare solo nell’accezione: “Come dice il Monti…”, ovvero: “ Come dice Vincenzo Monti nella sua Ode…” e mai per indicare “il signor” Monti, che di nome faccia Mario, o Giuseppe o Francesco. E, comunque, mai, in assoluto, l’articolo femminile seguito dal cognome.

Personalmente, direi sempre: “il ministro”; con valenza neutra: il ministro Passera, il ministro Fornero. Oppure, se e soprattutto volessi indicare particolare rispetto e considerazione per la donna in questione: il ministro Passera, il ministro, signora Fornero.

domenica 15 gennaio 2012

Penelope


Ha battuto sempre per Ettore, il mio cuore – E tu onore di pianti, Ettore, avrai,/ove fia santo e lagrimato il sangue/per la patria versato, e finché il Sole/risplenderà su le sciagure umane – molto meno per il furbo e avventuroso Ulisse. E se nell’Iliade ho amato Andromaca e Cassandra – quest’ultima, in realtà, mi appassionò, soprattutto, nella versione Christa Wolf – nell’Odissea ho sempre avuto un affetto particolare per la femminilità in sboccio di Nausica dalle bianche braccia.
Eppure quanto mi somiglia Penelope dalle lunghe attese, che tesse e ‘ssunde continuamente. Scrivo e cancello diecimila volte. E, talvolta, dopo diecimila riscritture, arrivata alla parola fine, rileggo e, in fondo, non mi pare così male. Eppure, premo il tasto più in alto a destra e il foglio torna, di nuovo, completamente bianco.

venerdì 13 gennaio 2012

La signora delle "none"


Non ho mai conosciuto una donna più visibilmente nobile di donna C., “la baronessa”.
Ormai anziana e sola – nel cortile della sua grande casa, nel vallone, ma a due passi dal canneto che separava la strada dal mare, un’enorme buganvillea che circondava il portone – si muoveva come fosse incorporea. Le mani bianche e affusolate le davano gesti trasparenti, un cammeo trattenuto da un sottile nastro nero fissava lo sguardo di tutti al suo collo sottile. Gentile e discreta, regalava ai bambini nespole e none (annone), frutti, quest’ultimi, degni delle divinità magno greche. Era gentile e discreta.
Era stata moglie di maru Cammi. Troppo fine e bella – più d’uno diceva che era figlia, illegittima, del principe B – per un artigiano, per quanto artista rinomato e benestante, e che pure la trattava come nessuna da quelle parti tanto che, quando voleva andare in città, mandava a chiamare un carrozzino. Il fratello del barone (solo al primogenito veniva riconosciuta la pienezza del titolo) se n’era innamorato vedendola lavare i panni alla fontana: come nelle canzoni tradizionali del reggino, solo che, in questo caso, lui passava davanti alla sena a cavallo. Scapparono e lei divenne “donna C., la baronessa”.
Donna e don; ‘mari e ‘mpari (comare e compare); ‘zi e ‘za (zio e zia) era il modo di rivolgersi alle persone. Con ‘gnura e ‘gnuri (signora e signore) ci si riferiva ai padroni di terre, a coloro alle cui dipendenze si lavorava. Il termine “donna” non era prerogativa solo delle più ricche (o meno povere), ma certo indicava una più profonda considerazione del loro valore. Donna C. lo meritava in pieno.
Maru Cammi e suo fratello Jafet, ebrei, lavoravano il legno. Producevano i macchinari per lavorare i bergamotti e oggetti di grande bellezza. Gli armadi di più artistica fattura per le spose più fortunate, li avevano costruiti loro. Litigarono pesantemente per la proprietà di una barca e, non riuscendo a mettersi d’accordo, la segarono, tagliandola a metà. Ancora oggi, qualche anziano della zona, per indicare litiganti che niente e nessuno può rappacificare, alza le spalle:Chiddi su comu maru Cammi e maru Afet”.
Gli Ebrei hanno lasciato Reggio Calabria– città che, secondo il mito, era stata fondata da Aschenez, pronipote di Noè – il 25 luglio del 1511, costretti dall’editto dell’anno precedente del re di Spagna. Avevano, fino a quel momento, abitato la Giudecca e avevano fatto fortuna sviluppando l’arte della seta e della tintura dei tessuti e quella tipografica. A Reggio era stata impiantata la seconda tipografia del Regno di Napoli da parte di Abraham ben Garton che, nel 1475, vi aveva stampato il Pentateuco, primo libro in carattere israelitici del mondo (tre anni dopo, Salomone di Manfredonia, aveva impiantato una tipografia a Cosenza).
Della loro presenza rimangono i cedri – una gioia aspirarne il profumo, e impossibile, senza le bucce candite, anche pensare a certi dolci – e i pipi chini: succulenta bontà che fa parte della nostra e della loro cucina. E, magari, certi tratti caratteriali che, mescolati a quelli arabi/islamici e a tutti gli altri che ci portiamo nel sangue, hanno fatto di noi “chiddi chi simu”.
Dicono che si muore davvero quando non si ha più orizzonte di futuro. Quanto sarebbe più facile costruire il presente avendo piena coscienza del proprio passato?

martedì 10 gennaio 2012

Fratture


Dunque, mentre come milioni d’italiani che hanno avuto la fortuna di alcuni giorni di vacanza, stavo per tornare al lavoro, sono stata attraversata, nello spazio tra cervello e cuore, da questo periodo passato in Calabria. Non solo le facce delle persone care. Ma l’aria, la luce, il sole, il vento della mia terra, quel colore dell’alba, dei tramonti che non hanno uguali; l’odore gradevolmente acre dell’olio che indora appena le crespelle; il dolce al sapor di bergamotto; le asciugamani di fiandra tessute dalle bisnonne; i Bronzi, che avrei voluto vedere a casa loro, al Museo, ma, così stesi, nella solitudine (gratis) del Consiglio regionale mi sono apparsi – lo devo dire – belli come mai (e mi è anche venuto da pensare che di questo loro rimanere in Calabria, nonostante tutto, bisognerà pur dare atto ai politici che se ne sono assunti la responsabilità). E la lingua, quel dialetto che è stato il mio primo modo di parlare e di pensare: la mobilità, la precisione, la forza evocativa con cui interpreta il mondo.
  Quanta Calabria, ovvero quanto ricordo, rimpianto, miraggio di Calabria sono dispersi per l’orbe terraqueo? Quanto pesa il malessere non detto, forse neppure pensato (perché, giustamente, il qui e ora del presente richiama ciascuno ad altri doveri, ad altri impegni) d’un’assenza – anche l’assenza voluta, scelta dai tanti raccontati dal greco Kavafis – “Per altre terre andrò, per altro mare/Altra città, più amabile di questa, dove/ogni mio sforzo è votato al fallimento,/dove il mio cuore come un morto sta sepolto,/ci sarà pure” – ma, comunque, sempre (o, ad essere cauti, quasi sempre) sdradicamento e incompiutezza?
Da Zoomsud, “La nuvola infelice sulla Calabria” firmato Consolata Cortese. Il testo è stato ripreso su fb, dove, tra gli altri, è apparso questo commento: “Si suppone che l'origine del nome 'Reggio' sia 'Reghion', dal greco 'frattura'... Non è forse un frattura dell'anima, quella qui descritta?”







domenica 8 gennaio 2012

La moglie del vento


Mare in tempesta, con onde alte in fuga scomposta. Il vento, veloce, violenta gli alberi e sembra scuotere pure i treni in stazione. Piove. Nel grigio di nuvole dense, appare, delicato, un arcobaleno. Come un abbozzo di sorriso. Nonostante tutto.
Quella che segue è una mia noterella per Zoomsud sul maltempo reggino di qualche giorno fa. Quando il mare è così burrascoso, si cerca(va) di esorcizzarne il (sacro) timore raccontando che o aveva litigato con la moglie oppure doveva ancora trovarne una: “’mmugghieri mi t’accappa”.


Ultimi anni quaranta del secolo passato. A San Lorenzo, un pecoraio si accorda con un ricco proprietario della zona: si prenderà cura delle sue pecore ( alcune centinaia) portandole al pascolo ogni giorno, “escluso quando fa cattivo tempo”. Piove di rado, da quelle parti, al proprietario è sembrata una richiesta strana (chi è al suo servizio, lavora sempre e comunque), ma, in fondo, accoglibile. Al primo giorno di pioggia, si fionda all’ovile, a controllare. Le pecore non ci sono. Molto più tardi, scorge il pecoraio che le riconduce al coperto, dopo averle lasciate brucare a lungo in un piano d’erba tenera e succosa: scola acqua da tutte le parti, ma non sembra per nulla contrariato. E così succede nei rari giorni di pioggia che capitano nei mesi successivi. Ogni volta il padrone si fionda all’ovile, ogni volta le pecore stanno al pascolo. Si chiede perché il pecoraio ha preteso quell’accordo, ma non dice nulla. Una mattina di cielo azzurro, limpido oltre ogni immaginazione, sale al pascolo per impartire un ordine, ma il pecoraio non c’è. Sta barricato nella capanna dell’ovile. “Cola, perché non siete uscito con le pecore?”, la domanda gli esce quasi come un urlo di rabbia. “’Gnuri – risponde calmo il pecoraio – io ho fatto un accordo con vossignoria, che quando è malutempu non mi muovo”. “Ma quale malutempu, non si vede ombra di pioggia e il sole è caldo…”. “Si, ‘gnuri, ma c’è ventu..”.
Sarà pure, ben usato, una ricchezza energetica, e, certo, ha un suo indubbio, magari inquietante, fascino (come ogni rabbiosa reazione della natura: soprattutto quando vissuta a rispettose distanze di sicurezza). Ma il vento – lo confermano le reazioni web di ieri alle forti mareggiate e al maestrale squassante (le notizie più gettonate sulla Calabria di questi primi giorni di 2012 sono state tutte di carattere “ambientale”, dalla splendida visione dell’Etna di Capodanno alla tempesta dell’Epifania) – non sembra particolarmente piacere ai calabresi.
“Acqua davanti e ventu darreru”, si diceva un tempo. E, in effetti, cosa c’è di meglio, per mandare qualcuno a quel paese, che quell’antico scuoter di spalle nell’augurare al malcapitato interlocutore (nemico e/o avversario) di trovarsi nel mezzo di una tempesta di pioggia e vento?

foto tratta dalla pagina fb di Calabria... una regione meravigliosa
il quadro è "Vento" di Van Gogh

giovedì 5 gennaio 2012

In boccio


Parte d’una storia aspra e contraddittoria ma non conclusa, al centro di una conca di collinozze di fichi d’india e olivi, tra erbe e spine rugiadose di lenze sottratte al seccagno dalla fatica di generazioni: prima rigogliose, oggi quasi incolte, domani chissà.
Tacciono i pensieri, per non contaminare di parole questo silenzio assoluto, che respira d’infinito e d’eternità: appena ritmato dal cinguettio degli uccellini.
I rami secchi d’un mandorlo schiantati a terra sono tutti ingemmati: confettini bianco-rosa, oblunghi, si spingono, con umile coraggio, in avanti.

martedì 3 gennaio 2012

Vulcani


Isole e vulcani del mio orizzonte.
Anche se gli sono grata della sua compagnia, il Vesuvio, che riempie la scena del golfo con un che di arrogante, sfacciata, noncuranza della sua imponente bellezza, non mi appartiene.
Con la sua maestosità semplice e raccolta, l’Etna ha sguardo e parole anche per me.
Ci conosciamo da sempre e da sempre ci raccontiamo di noi.

domenica 1 gennaio 2012

Etna calabra


Un gatto, striato a due diverse tonalità di grigio, incede, elegante, su un binario, poi attraversa, cauto e rapido, le rotaie e, saltando d'un balzo l’altro binario, scende veloce verso la stradina che costeggia il mare.
Con un morbido, ondeggiante scialle bianco sulle spalle, l’Etna allarga le braccia per raccogliere le montagne sue figlie. E, insieme, stupiscono dei colori d’uno Ionio cantante una musica, che cerca ancora il suo Mozart. Davanti a loro, dalle colline, salgono nel cielo dell'alba nuvole rosse, fiammeggianti.