Il Pellaro libri, sospeso
per pandemia nel 2020, ripartito con la presentazione, online,
di Natalino di Caterina Malara. È stata
un’occasione, vivace, di incontro, di confronto, di riflessione sulla nostra storia recente e sul nostro futuro, nel raccordo –
così fortemente perseguito dalla dirigente scolastica dell’IC Cassiodoro – don Bosco,
Eva Nicolò – tra la
scuola, e il relativo impegno educativo nei confronti delle giovani generazioni, e la crescita culturale complessiva del territorio.
Questa la mia recensione di Natalino, pubblicata su Zoomsud* il
5 gennaio 2021.
«Chi, come me, è nato negli anni ‘50 nella periferia
reggina, a ridosso delle campagne, ha avuto modo di conoscere gli ultimi
lavoratori di una categoria definita “I serviceddi”. Figli di famiglie non certo
abbienti, collocati a servizio presso le case dei “gnuri”.»
Figlio di Giamba e di Nata, che «lavoravano giorno e notte, si può dire, per
riuscire a vivere nella maniera più dignitosa possibile», Natalino, a otto
anni, già pratico di fatica nei campi e “istruito” («aveva frequentato
per due anni la scuola e sapeva leggere e scrivere: poteva bastargli»), lascia la sua
famiglia per trasferirsi da don Mimì e donna Lina. «Era usanza che i
possidenti chiamassero a servizio presso le loro abitazioni un garzone, spesso
figlio di un loro colono. La famiglia del ragazzo aveva così una bocca in meno
a tavola, cosa che faceva piacere soprattutto ai fratelli che restavano, e la
casa du gnuri godeva dei servigi di un factotum.»
Natalino di Caterina
Malara, pubblicato da Guida editore, ne segue le vicende alternando la terza
alla prima persona dell’autrice che l’ha conosciuto bambina – la casa di don
Mimì non era lontana dalla sua – e ha, da adulta, ascoltato avidamente tutti i
suoi racconti.
Ne viene fuori un ritratto nitido, vivido e sapido, della periferia
reggina della seconda metà del Novecento, in un paese disteso tra le colline e
il mare, con il suo ritmo, ancora antico, dei lavori domestici, dai dolci delle
ricorrenze al bucato a mano all’allevamento dei polli, delle fatiche delle
campagne – con la ricchezza, allora emergente, del bergamotto – e della pesca.
Un mondo semplice, di lavoro accurato e costante, che non disdegnava le feste,
in cui raccogliersi tra parenti ed amici, e la piccola bellezza dei cibi e dei
ricami, e dove la distinzione di classe, tra padroni e servi, pur sensibile, si
intrecciava o, comunque, non escludeva con rapporti affettivi stabili tra
“gnuri” e “serbi”.
Caterina Malara segue il suo Natalino con uno sguardo
affettuoso, accompagnandolo dalla casa di donna Lina e dai terreni di don Mimì
alla partenza per il militare e poi al lavoro al Nord, al suo matrimonio, alla
costruzione di un piccolo benessere economico e sociale lontano dalla propria
terra. Dove Natalino tornava ogni estate e dove volle comprare una casa, dove
sognava di vivere da pensionato e dove, invece – come è stato e continua ad
essere “destino” di tanti emigrati – non è più tornato. «Sulla porta di
casa sua staziona da qualche anno un cartello con scritto VENDESI.»
Un mondo che sembrava dover durare per sempre e, invece, è cambiato
rapidamente. Con una colata di cemento che ha rovinato la costa, la campagna è
stata semiabbandonata senza che si sia sviluppata una nuova economia, ed è
continuata l’emigrazione che ha depauperato il territorio, portando, però,
modernità nel rapporto tra le persone e nella nuova soggettività femminile.
Una lingua limpida e scorrevole, sobria e amorevole, che ben amalgama
italiano e dialetto accompagna questa vicenda che racconta, con lineare semplicità,
tutto un mondo. Arrivata tardi alla pubblicazione, Caterina Malara ha molte
storie in serbo che potrebbero presto arricchire il panorama della narrativa
calabrese.
*http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/107855-mariafranco