lunedì 30 dicembre 2013

Il 2014 e le elezioni europee






Non è stato un grande anno per l’Italia, il 2013. Ma, visto come sono andate le elezioni e il seguito, sarebbe potuto andare anche (molto) peggio.

Le prospettive per il 2014 sono (perlomeno) incerte.

C’è un impegno che andrebbe affrontato con intelligenza: le elezioni europee.

L’Europa, vista come la malefica entità che ci obbliga a pesanti  “compiti a casa” (quasi sinonimo di altre tasse), è tutt’altro che amata.

E, al momento, in effetti, non è riuscita ad essere molto di più di un’unità monetaria e di mercato, priva di un’anima.

A suo tempo, non m’era sembrata importante la vicenda dello scrivere a chiare lettere le sue “radici cristiane”. Oggi, che non si sappia dov’è il nucleo della nostra civiltà (la Grecia, Roma, il cristianesimo…) mi sembra una grande limite alla capacità di affrontare il presente e il futuro.

Lo so che non sarà così. Ma mi piacerebbe molto una campagna elettorale ALTA per le elezioni europee. Con candidati colti e competenti, che sappiano d’economia e di welfare. Che conoscano le lingue e abbiano orizzonti ampi. Che sappiano fare d’ogni nostra contrada uno spazio d’Europa. E contribuiscano a dare all'Europa un cuore intelligente e sensibile.


venerdì 20 dicembre 2013

Il racconto di Natale del mandorlo centenario

 
L'albero di Natale davanti al teatro Cilea di RC

Nessuno mi ha festeggiato, ma ho compiuto cento anni. Sono l’unico rimasto dei miei fratelli e sorelle. Sono stato il primo piantato da don Giovanni. Allora c’era una sola lenza fatta a giardino, tutto era ancora seccagno e la sera, quando scendeva il buio, per non aver paura, ci raccontavamo le storie, io, i fichi d’india in siepe che facevano da limite con la proprietà di ‘mpari Cola e gli ulivi che stavano più in alto. Poi don Giovanni alzò armacere, tolse le pietre, zappò e piantò tutta questa terra a mandorli. 

I mandorli giovani cercavano il primo soffio del vento per smuovere le foglie in segno di saluto. Mi nominarono capo del campo e passammo anni faticosi e lieti. Ci riempivamo di petali bianchi già da gennaio e ci caricavamo di frutti e anche i bastoni non ci sembravano che carezze. Perché chi raccoglieva le mandorle, nel calore di luglio, si spaccava la schiena ma era contento e ci guardava con gratitudine.

Poi non fu più così. Don Giovanni diventò troppo vecchio. Veniva qualcuno dei figli, diceva: “E’ troppa fatica e poca resa”. Tagliarono i mandorli – ne lasciarono solo tre: “Giusto per i petrali” – e piantarono bergamotti.

Io piansi i miei fratelli giovani, ma restai il capo del campo perché i bergamotti dissero ch’era giusto così. L’odore della zagara ogni primavera mi dava linfa e, nonostante l’avanzare del tempo, continuavo a fare mandorle. Poche, ma nessuno se ne importava più - neanche di tagliarmi via.
Poi, i figli furono sostituiti dai nipoti. Vennero, dissero: “E’ troppa fatica e poca resa” e tagliarono anche i bergamotti. Ne hanno lasciato solo due, ma stanno sulle lenze più basse, se non alzano la voce non li sento, che le mie orecchie sono indurite.

All’inizio di quest’anno è venuta una bambina. Bionda, con gli occhi verdi. Dev’essere figlia di uno di questi nipoti. Con lei c’era la nonna: “Piantiamolo qua” e volle messo accanto a me un albero che, da queste parti, non avevo visto mai.

Mi sembrò, quando il sole scese al li là dello stretto, di sentirlo piangere. Fui cauto a fare domande, ma non aspettava altro che poter dire di sé. Si chiamava: abete. Era cresciuto in un vivaio e l’avevano venduto alla madre della bambina, che l’aveva portato a casa e agghindato a festa. L’avevano riempito di nastri rossi e palle colorate e di luci a intermittenza che gli facevano il solletico, ed era bello vedere la bambina battere le mani contenta. Poi gli avevamo messo sotto tante scatole e scatolini e una notte, che a casa c’era più gente del solito, le avevano prese e aperte e sembravano tutti felici.

Che bella sarebbe stata la sua vita in quella casa, aveva pensato l’abete, ma, pochi giorni dopo, l’avevano spogliato di tutto, la signora che l’aveva comprato aveva detto: “Che strano, non è morto, ora che ne facciamo?” e, dopo un po’, s’era risposta da sola: “Ma, proviamo a trapiantarlo in giardino, chissà, magari lo possiamo riutilizzare il prossimo anno”.

Per qualche mese, ogni giorno l’abete mi chiedeva: “Che dici, è passato un anno?”, poi ha smesso di rinvangare il passato. È diventato amico dei due bergamotti, degli altri due mandorli, dell’unico pesco e del pero e anche del pruno, dei fichi d’india e dell’uva fragola. È affettuoso e gentile.

“Hai sentito quei due che passavano là sotto, per strada? – mi ha detto ieri – Non deve mancare molto al Natale. Chissà cosa mi succederà”.

Non aveva finito di dirlo che è apparsa la bambina. S’era fatta alta e le forme annunciavano già una giovinezza tenera e forte. Aveva con sé due grandi buste di plastica, e una piccola scala pieghevole.
Tolse nastri d’argento e d’oro, rossi e blu e ricoprì l’abete fino quasi a nasconderlo, poi scese due lenze e rivestì di festoni il bergamotto e, veloce, tornò su. Sui miei rami spogli ha messo grandi fiocchi a quadri e a pois e, in alto ha legato con rafia color tronco una grande stella argentata. Mi sento un po’ ridicolo e mi prendo io stesso in giro, parlando con l’abete, per non mettermi a piangere di commozione.

Non me l’aspettavo che dicesse: “Nonna, io non capisco perché ognuno, nel mondo, non addobbi per Natale  l'albero, quello che rappresenta la sua storia, il suo cuore.”


Pubblicato su Zoomsud  http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/61506-quando-il-mandorlo-divenne-albero-di-natale.html


domenica 15 dicembre 2013

Racconti: Ancora un caso per Poirot






Di strade ne avrebbe due. O prendere atto che, adesso, ne ha uno in meno e lasciare le cose come stanno, ché già uno spreco economico l’ha fatto. Oppure andare a comprarne un altro, spendere altri soldi, ma rattoppare in qualche modo quel taglio sul cuore.

Ci pensa. Ma nessuna delle due sembra placarla.

Quando, andando a tirar fuori dall’armadio maglione e pantalone da mettersi la sera – un impegno di lavoro, ma di quelli da onorare presentandosi in versione meno casuale del solito – aveva scoperto che quel pantalone non c’era da nessuna parte, le era precipitato addosso qualcosa non troppo dissimile alla disperazione.

Sapeva bene che non c’è proporzione alcuna tra un pantalone mancante, benché di marca, e la desolazione in cui aveva nuotato per ore e ore senza esserne, quasi una settimana dopo ancora  ancora del tutto uscita. Ma la defaiance  l’era parsa come l’irrimediabile certificazione  che la mente si stesse sbriciolando,  la trasandatezza su ogni aspetto pratico della vita avesse superato i limiti di guardia, e l’intelligenza, mai brillante ma sempre lucida, fosse affogata da tempo nell’angoscia dei suoi fantasmi.

Forse, chi potrebbe se non sanare alleggerirle il colpo è uno di quei vecchi investigatori che hanno il potere di placarle l’ansia, Maigret-Cervi, ma anche Maigret-Cremer, Nero Woolf- Buazzelli, Poirot- Suchet.

L’ultimo, soprattutto, con tutte le sue celluline grigie al lavoro.

Qui, da indagare, in fondo c’è ben poco.

E, poi,  lei sarebbe pronta a raccontare tutto quel che sa.

Il pantalone l’ha comprato un pomeriggio di grande stanchezza, una sorta di consolazione e poi, parendole troppo bello o troppo costoso per rischiare di sciuparlo per pochi euro, non gli aveva fatto la piega da sé, l’aveva dato alla sarta. Dalla sarta l’aveva ripreso una collega che gliel’aveva portato al lavoro insieme ad un ventennale cappottino che s’era decisa a far rimodernare. Stavano, cappottino e pantalone, nella stessa busta, quale non lo ricordava, certo abbastanza grande da farli entrare entrambi.

Ora il cappottino sta a casa, appeso dove stava anche prima dell’aggiusto. Il pantalone no. Né nell’armadio né in nessun altro luogo

Che l’abbia portato a casa, lo ritiene certo oltre ogni possibile dubbio. Togliendo il cappottino dalla busta, se ne sarebbe pur dovuta accorgere che il pantalone mancava.

Ma che cosa sia successo dopo aver risposto il cappottino, non ha percezione alcuna, neppure un sentore vago, una scia di reminiscenza. Chissà, forse è stata interrotta da una telefonata. Ma la busta rimasta a terra deve averla pure, ad un certo punto, ripresa. Che ne ha fatto? È possibile che l’abbia messa nella spazzatura, tanto distratta da non accorgersi, se non del peso almeno del gonfiore?

Sa quando ha portato la busta a casa, era un mercoledì d’ottobre, sa anche che impegni avesse quel pomeriggio, l’agenda glielo conferma.

Eppure non riesce a districare il garbuglio. Quale tensione, quale ansia, quale rilassato pensiero, qual senso d’abbandono per addomesticare quale terrore, quale urticante angoscia l’avevano annebbiata al punto che nulla sa di quella busta, di dove l’ha riposta o buttata, del perché non ha appeso al suo posto quel pantalone. Che era di un grigio argenteo, luminoso.

In assenza di Hercule Poirot, dopo aver pensato anche alla possibilità di punirsi evitando compere vestiarie almeno per un anno, si decide. Va a ricomprarlo. Scopre che no, il pantalone – nel negozio ne è rimasto solo uno –  non è grigio, ma ha uno di quei colori nuovi, mescolanze strane di scuri e chiari. E non è per niente bello come lo ricordava. Torna a casa, ripone il bel sacchetto plastificato ben in evidenza nell’armadio e si chiede se mai, quel pantalone, lo indosserà.


Questi sono i miei ultimi interventi su Zoomsud:

  







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venerdì 6 dicembre 2013

Il ritorno a casa dei Bronzi




Santa Nicola di Bari viniva, 'n testa purtava 'na nobili curuna...

Così recitava mia nonna in una novena di cui non ho nessun'altra memoria.

Questa notte, San Nicola ha portato un regalo a Reggio. 
Come tutti i regali, soprattutto i più preziosi, anche questo varrà davvero se sarà accolto degnamente. Fuori di metafora, è presto per festeggiare. Aspettiamo - e speriamo non sia attesa troppo lunga - che riapra il Museo, anzi che riapra tutto il Museo.

Eppure, questo - e capita davvero di rado per Reggio e dintorni - è un risveglio felice.

domenica 1 dicembre 2013

L'attesa del Natale





Oggi ricomincia l’attesa del Natale. Come ogni anno. 
E, ogni anno, sembra sempre più difficile aspettare qualcosa che non sia ulteriore disfacimento del mondo in cui viviamo, altri dolori, altra stanchezza: l’avviarci sempre più alla fine: la fine della nostra vita, la fine del mondo (o di un mondo).

Altro che letizia, fremito, ansia del Bello, del Grande, del Buono che è già nella Storia e si ripresenta però ogni anno a bussare alle singole porte: con le mani lievi di un Bimbo che entrerà solo se quella porta verrà aperta, magari spalancata, forse appena socchiusa.

Qualunque sia il dolore che lo squarcerà, avrà un po’ di pace e di luce chi - miracolosamente - riconoscerà nel Natale l’inizio e la fine, anzi il fine, chi nel Bambino di Betlemme vedrà il compiersi d’ogni promessa (di Dio)  e d’ogni desiderio (umano) di Gioia.


mercoledì 27 novembre 2013

Il pane messo a letto




Mi è capitato più d’una volta, anche recentemente, di leggere un bel libro la cui ossatura è costituita dall’epistolario, talvolta ripreso com’è, talaltra rielaborato ma in ogni caso autentico, dell’avo/a/i dell’autore, spesso dell’autrice, in questione: memoria di famiglia, custodita in uno dei cassettoni di casa.
 
Un genere di romanzo che io (e non solo) non potrei mai scrivere. 

I miei avi non scrivevano diari, non si scambiavano lettere d’amore. Conoscevano aratri e telai, non carta e penna. 

La storia della Calabria povera ha un nucleo di silenzio: le parole dette e pensate che non hanno avuto nessuna possibilità, oltre l’esaurirsi della memoria orale, di superare il tempo. 

Nel nostro ora c’è un allora muto, un incavo vuoto, culla o sepolcro, in cui una parola non scritta continua a dormire. Come, dalle mie parti, si diceva del pane appena impastato lasciato a lievitare: “mettere a letto”.

Eppure, a risvegliarla, quella parola, anche solo per dirla a se stessi, ci sarebbe una piccola luce a rischiarare un tempo che o viviamo con occhi nuovi o ci scotolerà fuori dalla Storia, come briciole inutili accumulate sulla tovaglia del pranzo.

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