«La
casa di Palizzi, sul Mar Ionio, costruita alla nascita di Lili, verso la fine
del 1925, nei ricordi di Adela era ancora rosa con il fregio azzurro déco e le
persiane verde bottiglia. Ampia e solare era esposta a sud. La terrazza si
vedeva appena dalla strada. (…) Sulla destra l’occidente, contro cui il cielo
mattutino si intravvedeva appena l’Etna dai contorni sbiaditi color cilestrino,
la sua mantellina di neve e il tenue pennacchio; ma, al tramonto, sembrava cha
al di là del mare l’incendio del sole venisse inghiottito dentro la bocca di
fuoco del vulcano, lontano, oltre i tetti di tegole scure e olre la casa della
nonna paterna, Doride. Alle spalle della terrazza, il nord con le sue montagne
brune, inaccessibili e massicce, le ultime propaggini dell’Aspromonte ricco di
faggi, di querce, di felci, capre, scrofe (…). Di fronte alla terrazza, il
mare. Il destino geografico di Adela era stato dunque semplice: l’orientamento
era elementare, i venti avevano una provenienza certa, e a ogni cosa erano
sottesi una logica essenziale e un assetto necessario, come le casa a forma di
casa».
Ada
Murolo – nata a Palizzi nel 1949, già professoressa di Lettere Classiche, prima
a Trieste, poi a Reggio, infine a Roma, dove vive dal 1992 – al suo primo
romanzo (nel 2008, aveva pubblicato la raccolta di racconti La città straniera,
edita da Città del sole) ricostruisce un mondo, quello della fascia jonica
reggina, che emozionerà i lettori calabresi che, avendo superato i cinquanta
anni, hanno vissuto, mutata mutandis, gli stessi odori, profumi, colori,
sapori, usi, dialetto e sarà, per il resto degli italiani, una grande scoperta:
un piccolo paese dell’estrema Calabria come scrigno prezioso del mito assoluto
dell’infanzia.
Il mare di Palizzi, edito da Frassinelli, è la saga della famiglia Bruno
(il padre Beniamino, figlio di Eduardo e Doride, la moglie Lili, figlia di
Agazio e orfana di Costanza, dei loro figli Daddo, Adela, Angelica e Betta). Famiglia
benestante, con i suoi riti fissi (i vestiti cuciti dalla sarta Olimpia; i bagni
iniziati il 24 giugno, il giorno dopo la “purga” per tutti i bambini; la messa
domenicale, sempre allo stesso banco, la visita al cimitero non il 2 ma l’1
novembre, la cena di magro della vigilia di Natale), la sequela di ragazzine di
servizio (e il seguito di lavori quotidiani e straordinari, come la lavatura
della lana), i legami, appassionati, di Lili col padre e di Lili col marito e
di quelli molto più incerti tra suocero e genero; la “distanza” dai più poveri,
eppure la generosa apertura della casa quando il “ciclone” del 1952 distrusse
anche la scuola delle suore.
E’
Adela a ricostruire le vicende della sua famiglia, le diverse abitazioni, il
trasferimento da Palizzi a Reggio, il ritorno della madre a Palizzi, il
deteriorarsi fino all’afasia dei suoi rapporti con il fratello, pur molto amato.
Lo fa tornando continuamente in Calabria e continuamente immergendosi nella
ricerca e nelle memorie del passato. Il libro inizia con lei, divorziata e con
una figlia piccola, che da Trieste, dove vive e lavora, arriva a Reggio nel
marzo del 1991 e si conclude nel 2009 con una lettera al fratello che, pensata
per anni, viene definitivamente maturata nel ritorno a Palizzi del 2008,
quando, di fronte alla distruzione che del passato sta facendo la madre (taglio
di alberi, vendita di case e terreni), coglie compiutamente chi è e cosa vuole:
«Ma Adela non voleva dimenticare, nemmeno adesso che non aveva più bisogno che
Daddo capisse. L’appartenenza, per lei, non riguardava più il fratello. La sua
appartenenza era la ricostruzione. La sua casa la memoria. Ciò che Lili aveva
distrutto, Adela ricostruiva con le parole».
Scrive
al fratello al termine di un faticoso ritrovamento di fatti ed emozioni, di
immagini e di non-detti, di volti, di paure e di stupori: «ancora oggi mi
sorprende un dolore, qualcosa di più forte della nostalgia, quando mi balena
nella mente un’immagine fuggevole della Calabria. Ulivi solitari, casupole
diroccate con le tegole scure sperdute in mezzo ai campi, gialli come deserti,
il pane nel forno a legna, sotto il vecchio fico. (…) Vorrei essere accolta,
anche se non conosco la terra e le stagioni, se non so sentire nell’aria
l’arrivo degli adorni e il vento di scirocco. Vorrei tornare in patria. Voglio
il mare di Palizzi, voglio di nuovo la pioggia e il vento, il fuoco e il latte,
l’abito nero e quello bianco, il sonno e l’amore, il bambino e la vita. La
morte. Devo essere degna della morte».
La
sua riconquista, attraverso le parole, di ciò che è stato, può di nuovo
liberare il tempo.
E
così, Adela – figlia incompresa e madre imperfetta, incapacità di vivere
pienamente il presente – può finalmente liberare l’energia compressa nella
fissità al passato, lasciando alla figlia e alla nipotina la libertà di andare
verso il futuro.
Nel giugno del 2013 apparve su Zooumsud questa mia recensione a Il mare di Palizzi di Ada Murolo. Il testo non è più visibile su internet. Per questo, mi sembra opportuno riproporla, dopo aver scritto su questo blog, ma, dopo aver scritto, qualche giorno fa, del suo ultimo volume, Si può tornare indietro.
Nessun commento:
Posta un commento