venerdì 28 giugno 2019

Novantanove giusti? E dove li trovi?







Una decina di donne, un uomo, una bambina e un bambino. Le donne, quasi tutte, si sventagliano. Anche il prete usa un messale a mo’ di ventaglio. La chiesetta – una sorta di stanza più lunga che larga, con due nicchie laterali, una con una Madonna più grande del Cuore di Gesù che occupa l’altra – ha un certo senso del sacro. Sarà il grande crocefisso di legno, non del tutto proporzionato al piccolo ambiente, che si staglia su una striscia di muro colorata in rosso pompeiano.

Una volta un mio amico mi scrisse che, nelle chiese, ci sono troppi crocefissi e pochi rimandi alla resurrezione: come un vincolo al dolore che non rispetta la speranza cristiana. Non ero e continuo a non essere d’accordo con lui: niente è più universalmente umano del dolore che, in un modo o nell’altro, colpisce tutti gli esseri viventi.

È un giorno particolare per me – dopo una serie di ultimo/ultima (l’ultima relazione, l’ultima presentazione, l’ultimo esame) – oggi è, davvero: l’ultimo. E, questa data, quella del Sacro Cuore, è legata, molto, ad una fase della mia vita in cui ho frequentato i padri dehoniani. Insomma, è un giorno carico di emozioni.

Il Vangelo parla del pastore che lascia le novantanove pecore per cercare la centesima smarrita. Ed è una parabola che sembra particolarmente fuori tempo. Novantanove giusti su cento? E dove li trovi, soprattutto se nel termine giustizia volessimo far rientrare anche la parola fede?

Non viviamo in una società post-cristiana che, avendo assorbito, nei suoi aspetti migliori, principi e valori del cristianesimo, sembra aver irrevocabilmente allontanato dal proprio orizzonte Gesù Cristo, tanto più Gesù Cristo-Dio?

Forse, più che dal bellissimo passo di Ezechiele («Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. (…) Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia»), questo Vangelo andrebbe preceduto da quello della Genesi quando Dio, per salvare Sodoma, su richiesta di Abramo, si accontenta prima di cinquanta, poi di quarantacinque, poi di quaranta, poi di trenta, poi di venti e, infine, di dieci giusti.

Lode, insomma, ai giusti. Fossero pochissimi: basterebbero a dire al mondo che ogni notte sarà seguita dalla luce dell’alba.

mercoledì 26 giugno 2019

Gli esami di Martina






Grazie per tutte le volte che ha portato pazienza con me spiegandomi argomenti semplici anche cento finché non vedeva che mi erano entrati in testa. Grazie di avermi aiutato con la scuola in questi tre anni spiegandomi materie diverse da quelle che insegna lei. (…) Ho un altro ricordo che è marchiato a fuoco nella mia memoria. Maè, stavamo studiando diritto e dopo un’infinità di pagine dove ripetevano cose logiche e sempre uguali, vi siete girata e avete detto: “Martì mo’ basta, continuiamo un altro giorno.” Maè, mi avete spiazzato perché non avrei mai pensato che potesse dire una cosa del genere sapendo quanto le piace studiare.” Da una lettera di Martina


Ieri, Martina ha finito gli esami. Di Stato.

Non sono tantissimi i ragazzi che, usciti da Nisida, hanno continuato la scuola, raggiungendo la licenza della scuola superiore, ma qualcuno c’è. Una gioia grande me la diede un ragazzo, che, dopo tanti anni dall’uscita da Nisida, mi raccontò come s’era rimesso a studiare, prendendo la licenza liceale: avevo passato non poche ore a tentare di convincerlo che doveva continuare a studiare.

Martina è la prima a fare gli esami, in una scuola della città, da esterna, stando ancora a Nisida. Grazie alla sua straordinaria forza di volontà, al sostegno delle docenti di Nisida, che le fanno fatto da supporto, ognuna per le propria disciplina e/o per le proprie competenze, a qualche docente che, da volontaria, le ha tenuto qualche lezione, all'appoggio di tutti gli operatori dell'IPM (educatori, agenti, ecc.)

Ci sarebbe da aprire un dibattito sull’organizzazione dei Cpia, cui attiene anche la scuola in carcere: a partire dall’assurdità di un sistema che non riconosce le 850 ore del cosiddetto secondo periodo come biennio superiore, valido per accedere, con la necessaria integrazione delle materie specifiche, al terzo anno del superiore.

Ma, per oggi, lasciamo i discorsi più generali per festeggiare un risultato straordinario che, spero, possa essere di traino per altri ragazzi e, in specie, per altre ragazze.

Quando ho iniziato, tre anni fa, a fare lezione a Martina, lei mi seguiva con un’attenzione vuota: nel senso che voleva essere attenta, ma non sembrava cogliere i nessi tra le parole, anche perché, a scuola, l’avevano convinta che tra lei e l’Italiano c’era una sorta di inguaribile inimicizia. Quando, poche settimane fa, abbiamo finito di ripetere, per l’ennesima volta, i programmi di Italiano, Storia, Diritto, i collegamenti le venivano semplici e si divertiva a prendere garbatamente in giro, centrando il motivo, questo o quel grande autore della nostra letteratura.

Mi dicono che, in Italiano scritto – la sua ex bestia nera – ha avuto il massimo.

Merito suo, certo. Ma un regalo, per me, che vale cento medaglie.

martedì 25 giugno 2019

Donne d'estate: Almeno un geranio



 
Immagine dal web

Il primo giorno libero dopo gli esami, Daniela lo dedicava alle piante. Non è che l’avesse deciso. Era successo il primo anno che avevano comprato casa nuova e poi era continuato a capitare tutti gli anni. I due grandi balconi che circondavano l’appartamento al quinto piano erano pieni di piante: trascurate in inverno, quando Daniela non tollerava neppure l’idea di stare un po’ di ore al freddo, e trascurate anche in primavera, quando aveva troppi progetti didattici da concludere per trovare il tempo per altro. Ma il primo giorno dopo gli esami, anche se non l’aveva previsto, anche se aveva programmato altro, si alzava all’alba (come in tutto il periodo di scuola) e cominciava a togliere erbacce, potare le felci ognuna delle quali faceva da piccolo boschetto, rabboccare i vasi di terriccio. Finché arrivava il sole – che su quei balconi arrivava tardi, intorno mezzogiorno – Daniela lavorava con serena alacrità, libera dai pensieri che l’avevano accompagnata durante tutto l’anno scolastico: leggera e lieta di avvertire il muoversi delle dita, la fatica delle gambe, la dolenzia della schiena.

Non le bastava una mattinata, ma, già a un quarto del lavoro, si guardava intorno compiaciuta, i grandi sacchi della spazzatura riempiti e le braccia segnate da graffi. Un po’ le veniva da sorridere pensando che un provetto giardiniere avrebbe avuto un conato davanti ai suoi rami mozzati con il coltello ma c’era un sorriso più profondo: come l’appagamento di un ritorno a casa.

Nonostante la cura parziale e approssimativa che ricevevano, le piante non l’abbandonavano: con poca terra o terra mai zappettata, con rami e foglie secche tolti solo una volta l’anno, eppure continuavano a darle verde e il senso di stare dentro una lunga storia.

Come se avessero accumulato il bene voluto ad altre piante.

Nel passato, la sua, era stata una famiglia contadina che coltivava ogni pezzetto di terra in maniera utile: pomodori, patate, lattuga, agli, zucchini. Eppure un pezzo veniva lasciato all’inutile, non al necessario bensì al solo bello: rose, garofani, fior d’angelo. C’era sempre un fiore, in casa, davanti al quadretto della Madonna o di un familiare morto. Suo padre e anche sua suocera dicevano che dalle persone che non tenevano qualche pianta sul balcone – almeno un geranio – era meglio star lontani.