venerdì 29 novembre 2019

Avrei voluto scrivere d'altro. Invece

Matteo Renzi, a Napoli, febbraio 2019, durante la presentazione del suo libro "Un'altra strada"

 Ho raccontato d’essere stata alla Leopolda. E da che parte sto. Dopo, avevo pensato che, per qualche mese, sul blog, e sui social che frequento, avrei parlato solo d’altro.
E, invece, nei giorni scorsi, ho soprattutto condiviso post, interviste e quant’altro di e su Matteo Renzi. Cosa che, immagino, farò anche nei prossimi. Prendendomi dei relativi sfottò, alcuni amichevoli-ironici, altri decisamente di cattivo gusto. Tant’è.
Ci sono momenti in cui – soffrendo anche fisicamente la situazione – mi è impossibile non schierarmi.
Schierarsi è sempre un’arma a doppio taglio: puoi perdere, nel senso che ti puoi trovare dalla parte perdente, oppure, ed è molto peggio, puoi ritrovarti tradita, perché hai sbagliato a fidarti. Non schierarti, in qualche modo, ti protegge, perché ti impedisce di perdere, nell’uno e nell’altro senso. Ma ti impedisce anche di vincere. Vincere nell’unico senso che ha per te: quello di aver detto cosa pensi, di aver appoggiato chi pensi vada appoggiato, di aver preso posto non in base alla tua convenienza, bensì alla tua verità.
Oggi, si sta giocando sulla pelle di Renzi e di chi crede nelle sue capacità di leader politico una partita pesante, che va ben al di là di lui. Ed io sto dalla sua parte.

mercoledì 27 novembre 2019

Piccole storie da Nisida: Il leggio






Dicono che nome e persona sono la stessa cosa. Non è vero. La maestra Cassandra non profetizza sciagure. Quando tutto va male, ride: Tutto a posto. Fosse stato per me, avrei levato mano da prima di subito. Lei no. Mesi di ottovolante prima di arrivare a questo pomeriggio. Io urlerei anche adesso, lei non fa una piega.

Vittorio, la parte, la sa molto bene. Fino a ieri sembrava sicuro di sé: i gesti giusti, il tono sciolto, l’espressione naturale. Ora, si rifiuta di fare l’ultima prova. Che, poi, è un’ultima prova che, dopo un’ora, si andrà in scena davvero. Non è la prima volta che Vittorio fa così: arriva a un passo dalla realizzazione e si ritira. Come se avesse un fuoco dentro che gli si spegne all’improvviso, lasciandolo in un buio che non può fare un passo. Si va a sedere in un angolo e respinge i due, tre compagni che s’avvicinano per convincerlo a recitare: Lasciatemi in pace.

Valeria finge più ansia di quella che prova, gli occhi allargati, il respiro trattenuto. Chiede di poter fumare, recita preoccupazione. Mi tremano le gambe. Più s’affanna, più si sente scendere nel ruolo della protagonista. Lo sa: anche questa volta farà vibrare gli spettatori.

La maestra Cassandra ridispone le posizioni di partenza: Kevin, tu vieni da destra. Aspetta che Luigi esca, prima devi fare due passi, poi ti avvicini… Elena a sinistra di Angelica… Spostate quel tavolino più al centro. Quel leggio, a sinistra… Ecco, mettici sopra i fogli, Luigi ricominciamo…

Luigi mi si avvicina, dispone i fogli, li aggiusta. Sarà lui a presentare e fare da collegamento tra le scene. Tre mesi fa era un perfetto baccalà. Un leggio, dove si posano testi di Eduardo e di Shakespeare, non dovrebbe usare termini così, lo so. Ma non ne trovo uno più adatto. Uno spilungone dalle spalle curve, che non sapeva dove tenere le braccia, lo sguardo a metà tra perso e annoiato, un tono piatto e lamentoso. Le prime volte avrei voluto urlare alla maestra Cassandra che non era giusto sottopormi allo strazio della sua lettura. Avanzava già il balbettio di Genny e Raffaele che metà delle parole se le mangiava. Ma ha avuto ragione lei. Ora, Luigi, le spalle dritte, il petto in fuori, ha tirato un bel respiro profondo e ha cominciato: rispettando le pause e azzeccando i toni. Quasi tutti. Guarda davanti a sé, senza leggere. Ha imparato a memoria, e i fogli davanti gli servono solo a evitare il panico del e se mi dimentico?

Intanto, con un piccolo effetto domino, Francesco ha preso il ruolo di Gaspare e Gaspare quello di Vittorio e il ruolo di Francesco è stato annullato. La maestra Cassandra i testi li compone e scompone continuamente: senza fare una piega. A Gaspare piace avere un pubblico, come se stare su un palco lo risarcisse d’un’infanzia passata da invisibile per strada. Che, nel cambio, abbia guadagnato una decina di battute in più, lo manda su di giri: il battito accelerato del cuore lo fa sentire libero più del vento, almeno per un po’.

Alessio, che ha il ruolo principale – poche battute più di Vittorio/Gaspare – arriva quando la prova è iniziata da un pezzo, con addosso l’odore di fritto. È il più bravo del laboratorio di friggitoria, c’erano arancini e frittatine di pasta da preparare per il dopo teatro. Era uno agitato, pronto a fare tarantelle ogni momento, ora s’è come placato. Quanto Gaspare crea intorno nervosismo, tanto Alessio rasserena. Anche Vittorio lascia il suo angolo, dice che reciterà. 

Ok – dice la maestra Cassandra – ma prendi il ruolo di Gaspare.

Non sarà l’ultimo cambiamento in quest’ora prima di andare in scena. Qualcun altro, all’ultimo, si ritirerà e la maestra Cassandra lo sostituirà. Tutto a posto.

Andrà tutto bene. Va sempre tutto bene. Gli spettatori si commuoveranno. Per i ragazzi: Come recitano bene. Ma, anche per loro stessi. Si sentiranno migliori perché, stasera, sono stati qui. Come se avessero percepito un pizzico di verità. Che, di tutti i luoghi, il teatro è il luogo dove meno si recita. Si è nudi. Con i propri fantasmi. Spettatori compresi.

lunedì 25 novembre 2019

Piccole storie da Nisida: L’albero del Vicks


Nisida, festa dell'albero 2018
Sei parente di Giuseppe? aveva chiesto l’educatrice al primo colloquio. Marco aveva alzato le spalle e stretto la bocca in una smorfia come per dire: Ma chi è? Due giorni dopo, Giuseppe e Marco stavano seduti, alla mia ombra, sulla stessa panchina. Giuseppe, che si vantava d’essere il miglior centravanti nella storia di Nisida, s’era fatto male ad una caviglia, in una partita a calcetto agenti – ragazzi, vinta dai primi, ma con tre gol suoi. Alla pausa di metà mattina, aveva rinunciato a tirare due pallonate a canestro e s’era allungato sulla panchina. Marco, che di natura era pigro e che un pallone non sapeva prenderlo a calci e neppure lanciarlo a mano, si sedette accanto a lui. Uno più snello, l’alto più robusto, uno più chiaro di pelle, l’altro più olivastro, avevano lo stesso taglio di occhi e, nella voce, un timbro simile. Tornarono, senza molta voglia, Giuseppe a ceramica, Marco a scuola, e nei giorni successivi cercarono ogni occasione di parlarsi e ogni possibilità di sfuggirsi. Quando di nuovo si sedettero sotto la mia ombra, più spavaldo Giuseppe, più restio Marco, si sorrisero: Ciao, frà.

Fortuna che, quel giorno, c’era un po’ di vento. Così, nessuno capì che tremavo in ogni foglia, in ogni nervatura della corteccia, che la linfa non mi risaliva più lungo i rami. Quando Giuseppe e Marco scoprirono d’essere fratelli, due madri e un solo padre – nel tempo, avrebbero considerato una fortuna essere finiti insieme in carcere, se, no, magari, non l’avrebbero saputo mai – non è l’unica volta che mi sono commosso. Mi è capitato quando Angelica disse: Ho fatto un voto. Se mi fanno rivedere Vale, non fumo più. Prese dalla tasca del giubbotto un pacchetto di sigarette e lo passò a Elena, che se lo girò un po’ in mano e lo passò a Carmen, che le sue le aveva finite. Carmen ne accese una, ma, dopo il primo tiro, ci ripensò: Da quant’è che non vedi tua figlia? – Sei mesi. Mia suocera l’ha portata lontano; ora, Vale sta con mia cognata. Forse, questo sabato me la porta a colloquio. Elena tirò su col naso: Per oggi, non fumiamo neanche noi. E tutte riposero le sigarette. L’unica volta che un po’ di fumo addosso l’avrei voluto, una piccola nuvola per nascondere l’emozione.

E mi sono commosso quando ho visto Nicola, i capelli unti di gel, il gilè e la cravatta argentati, e le scarpe lucide, che andava a raggiungere la sposa vestita di bianco nella sala colloqui, e Salvatore, che aveva mantenuto la faccia da duro per il fratello morto sparato, piangere per un cugino finito di cancro.

Già, le facce. Anche se cambia la moda dei capelli, le facce sono sempre uguali. O, forse, no. Se torno indietro nel tempo, non vedo solo facce di ragazzi, ma anche di uomini maturi e, magari, anziani. Io c’ero quando uscì dalla torre il conte Poerio: scendeva lento, i passi stentati di chi per troppo tempo è stato rinchiuso, nel volto la dignità di chi si piega solo alla sua coscienza. Mai, ho visto uno sguardo come il suo.

I miei ricordi, li racconto al vento e agli uccelli che mi si poggiano sui rami. Ho un’età, ma sono ancora giovane per un albero della mia specie. Una diecina d’anni fa, m’è caduto addosso un fulmine. Mi ha squarciato il tronco e schiacciato a terra gran parte dei rami. Per alcuni mesi sembrai morto, tanto che iniziarono a segarmi. Ma dalla cavità del tronco ricominciarono a crescere e a inverdirsi dei rami. Mi ricordo di me più folto, radici ben ramificate, i nidi nascosti tra le foglie, ma la mia ombra ha superato di nuovo una panchina e, quasi, ne copre una seconda. Agenti, educatrici, assistenti sociali, ragazzi e ragazze se ne stanno volentieri sotto i miei rami. 

Un giorno, l’agente Maurizio mi ha preso una foglia, l’ha spezzata e ha detto a Vittorio e a Luca: Sembra il Vicks. – Cioè, hanno chiesto. L’agente Maurizio ha tolto dal giubbotto un barattolino azzurrato con dentro una specie di unguento: Lo fanno da quest’albero, ha detto, da piccolo, mia mamma me lo spalmava sul petto quand’ero raffreddato, ora mi massaggio il collo, quando mi fa male. A sentirsi male sono stato io: Ma che, mi vogliono trasformare in unguento? Ma nessuno m’ha toccato e nessuno ha mai più pronunciato quel nome. A me, l’odore del Vicks neppure piace. Il mio, sì. È bello.