domenica 14 agosto 2016

Tra Occhio e Pellaro, una conca di mare fatata e sacra







La conca di mare tra Occhio e Pellaro, con all’orizzonte la Sicilia e la mutevole Etna, è come un palcoscenico, che la terra abbraccia a mo’ di anfiteatro. Un tempo, quando la spiaggia di sabbia finissima, pietruzze e canneto non era offesa da costruzioni dentro l’acqua, reticolati carcerari e fogne a cielo aperto, era un paradiso senza uguali. Cielo e mare sembravano davvero il regno fatato di Morgana e lo sciabordio delle brucare dava al cuore il respiro del sogno. Ma anche ora, poiché lo sguardo è selettivo e sa, se vuole, vedere solo il bello, resta un angolo di paradiso: decaduto, forse perduto, ma sempre paradiso.

In questa conca sono arrivati i greci, belli come dei, portandoci la civiltà degli olivi e dei mandorli e vi hanno trovato porto sicuro le navi romane (e più di un comandante, sceso sulla terraferma, avrà comprato, per la sua casa, una lucerna di terracotta). Qui sono arrivati gli ebrei che ci hanno insegnato l’arte della seta e non tanto lontano da qui è sbarcato san Paolo. Qui sono apparsi i pirati turchi, lasciando memorie di lacrime e spaventi e sono giunti, in ghingheri, gli alti funzionari dei viceré spagnoli. Qui il mare si è alzato in onde di folle violenza che hanno aggiunto catastrofe alla catastrofe del grande terremoto. E proprio qui, poco più di settanta anni fa, dalle navi da guerra americane si sono mossi verso terra gli anfibi, carichi di cibo, segnando, per questi luoghi, la fine della guerra e l’inizio della libertà.

Ci penso, spesso, all’uno o all’altro di questi eventi, mentre all’alba o al tramonto vado a piedi da Occhio a Pellaro – è la storia cui appartengo: fatta di terra e di mare, di semine e lenze – e mi piace immaginare i tanti piccoli romanzi di chi qui è arrivato navigando tanto tempo fa. Senza il filtro del passato, meno romanzesco, più doloroso, è pensare a quelli che sono arrivati negli ultimi anni, scappati dalla fame e dalla guerra e alla ricerca di una patria che non è questa.

Ci sono ormai poche barche, quasi sempre ferme sulla riva, e ancora meno pescatori. Sasà, il pescivendolo raramente può dire: “E’ di qua sotto”. Ma, fino a quand’ero ragazzina, eravamo un popolo di contadini e pescatori. La fatica notturna delle barche dai grandi fari si traduceva in ceste di cangiante azzurro-argento – costardelle (chi non ha avuto mai la fortuna di mangiarle non sa che cosa si è perso), aguglie, rindinuni, fravaglia – e le decine e decine di lampare che scivolano lente sull’acqua immobile come un lago portavano a riva secchi di totani ancora vivi.

Era facile, la mattina, vedere i pescatori che rammendavano le reti stese sul brecciolino e le madri di famiglia si trasmettevano i loro segreti per cucinare i rosati ‘surici e le brutte-buonissime ‘scoffane (scorfani).

Forse è per quelle tante scene che ho assorbito nell’infanzia che, andando da Occhio a Pellaro, l’immagine che più mi viene in mente è quella di Luca 5, 1-3: Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca.
 
Insieme al colloquio post resurrezione con la Maddalena – “Maria”- “Rabbunì , colloqui che buca lo stomaco – l’immagine di Gesù sulla barca, con i pescatori che lavano le reti e la folla – il gregge senza pastore – che ascolta le sue parole sentendo sciogliersi il cuore, è, tra tutte quelle evangeliche, quella che la mia mente vede più chiaramente.

Non mi capita davanti ad un mare qualsiasi, solo qui ho la percezione di un’immagine di fisica concretezza, di materiale realtà di Cristo. 

Mentre in tante altre situazioni avverto il peso dei milioni di libri, delle costellazioni di parole, delle lastre di ghiaccio che ci stanno tra me e Lui, in questa conca, mi sembra d’intravvedere il suo sguardo, di sentire l’eco della sua voce. E un senso di pace, oltre ogni stanchezza e dolore e fatica, colma (almeno per qualche istante: il balenio della trasfigurazione) anima e corpo.

(Quando stamattina, in chiesa, ho sentito che la prossima adorazione eucaristica, la sera del 18, si farà a mare, col Santissimo sulla barca, ho provato una felicità immensa. Per chi potrà esserci; io no, in quella data, ho un impegno, preso da tempo e più volte confermato)

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