La conca di mare tra
Occhio e Pellaro, con all’orizzonte la Sicilia e la mutevole Etna, è come un
palcoscenico, che la terra abbraccia a mo’ di anfiteatro. Un tempo, quando la
spiaggia di sabbia finissima, pietruzze e canneto non era offesa da costruzioni
dentro l’acqua, reticolati carcerari e fogne a cielo aperto, era un paradiso
senza uguali. Cielo e mare sembravano davvero il regno fatato di Morgana e lo
sciabordio delle brucare dava al cuore il respiro del sogno. Ma anche ora,
poiché lo sguardo è selettivo e sa, se vuole, vedere solo il bello, resta un
angolo di paradiso: decaduto, forse perduto, ma sempre paradiso.
In questa conca sono
arrivati i greci, belli come dei, portandoci
la civiltà degli olivi e dei mandorli e vi hanno trovato porto sicuro le navi
romane (e più di un comandante, sceso sulla terraferma, avrà comprato, per la
sua casa, una lucerna di terracotta). Qui sono arrivati gli ebrei che ci hanno
insegnato l’arte della seta e non tanto lontano da qui è sbarcato san Paolo. Qui
sono apparsi i pirati turchi, lasciando memorie di lacrime e spaventi e sono
giunti, in ghingheri, gli alti funzionari dei viceré spagnoli. Qui il mare si è
alzato in onde di folle violenza che hanno aggiunto catastrofe alla catastrofe
del grande terremoto. E proprio qui, poco più di settanta anni fa, dalle navi
da guerra americane si sono mossi verso terra gli anfibi, carichi di cibo,
segnando, per questi luoghi, la fine della guerra e l’inizio della libertà.
Ci penso, spesso, all’uno
o all’altro di questi eventi, mentre all’alba o al tramonto vado a piedi da
Occhio a Pellaro – è la storia cui appartengo: fatta di terra e di mare, di
semine e lenze – e mi piace immaginare i tanti piccoli romanzi di chi qui è
arrivato navigando tanto tempo fa. Senza il filtro del passato, meno
romanzesco, più doloroso, è pensare a quelli che sono arrivati negli ultimi
anni, scappati dalla fame e dalla guerra e alla ricerca di una patria che non è
questa.
Ci sono ormai poche
barche, quasi sempre ferme sulla riva, e ancora meno pescatori. Sasà, il pescivendolo
raramente può dire: “E’ di qua sotto”. Ma, fino a quand’ero ragazzina, eravamo
un popolo di contadini e pescatori. La fatica notturna delle barche dai grandi
fari si traduceva in ceste di cangiante azzurro-argento – costardelle (chi non
ha avuto mai la fortuna di mangiarle non sa che cosa si è perso), aguglie,
rindinuni, fravaglia – e le decine e decine di lampare che scivolano lente sull’acqua
immobile come un lago portavano a riva secchi di totani ancora vivi.
Era facile, la mattina,
vedere i pescatori che rammendavano le reti stese sul brecciolino e le madri di
famiglia si trasmettevano i loro segreti per cucinare i rosati ‘surici e le
brutte-buonissime ‘scoffane (scorfani).
Forse è per quelle tante
scene che ho assorbito nell’infanzia che, andando da Occhio a Pellaro, l’immagine
che più mi viene in mente è quella di Luca 5, 1-3: Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret e
la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due
barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì
in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra.
Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca.
Insieme al colloquio post
resurrezione con la Maddalena – “Maria”- “Rabbunì , colloqui che buca lo
stomaco – l’immagine di Gesù sulla barca, con i pescatori che lavano le reti e la
folla – il gregge senza pastore – che
ascolta le sue parole sentendo sciogliersi il cuore, è, tra tutte quelle
evangeliche, quella che la mia mente vede
più chiaramente.
Non mi capita davanti ad
un mare qualsiasi, solo qui ho la percezione di un’immagine di fisica concretezza,
di materiale realtà di Cristo.
Mentre in tante altre situazioni avverto il peso
dei milioni di libri, delle costellazioni di parole, delle lastre di ghiaccio
che ci stanno tra me e Lui, in questa conca, mi sembra d’intravvedere il suo
sguardo, di sentire l’eco della sua voce. E un senso di pace, oltre ogni
stanchezza e dolore e fatica, colma (almeno per qualche istante: il balenio
della trasfigurazione) anima e corpo.
(Quando stamattina, in
chiesa, ho sentito che la prossima adorazione eucaristica, la sera del 18, si
farà a mare, col Santissimo sulla barca, ho provato una felicità immensa. Per
chi potrà esserci; io no, in quella data, ho un impegno, preso da tempo e più
volte confermato)
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