È da qualche giorno in libreria Tutta una vita di Saverio Strati, edito
da Rubbettino trenta anni dopo la stesura del testo. Ne parlerò. Per ora,
riprendo due mie recensioni che non si trovano sul Blog.
La prima riguarda Noi
lazzaroni:
https://www.zoomsud.it/index.php/cultura/105719-le-recensioni-di-maria-franco-noi-lazzaroni-di-saverio-strati
Avevo già i miei 27 anni. Ero uomo. Ma che uomo
sei se ti manca il lavoro e il mondo si rifiuta di darti una mano? (…) Ci
domandiamo spesso come l’Italia sia andata avanti con tanto malcostume e
disorganizzazione. (…) La guerra non aveva cambiato la condizione di noi lavoratori.
Solo protestare si poteva, parlare tra noi in piazza, o nella sede del partito.
Qualcuno proponeva di rompere tutto, com’era avvenuto a Caulonia, di squassare
il paese, di dare fuoco alla casa del prete e del barone. Ma il segretario
della sezione raccomandava la calma, la prudenza, l’ordine. La rivoluzione
violenta era inconcepibile, assurda. Bisognava saper lottare col voto.»
Tornato per qualche giorno nel reggino,
Salvatore, ormai emigrato da anni, narra – un po’ a se stesso, un po’ ad un
amico che sogna di trarne un libro – la propria vita: il rapporto conflittuale
col padre, uomo dal carattere difficile e mastro muratore bravissimo che, con
durezza, gli ha insegnato il mestiere, («il mestiere (…) è sapere e arte
insieme»); l’insofferenza nei confronti del regime fascista e il disprezzo nei
confronti del barone Fofò, potente del luogo; la fame mai placata dal poco pane
che gli toccava; i litigi con la madre, che lo tormentava perché procurasse,
dopo la morte del padre, pane per tutta la famiglia, («la mancanza di lavoro e
di avvenire provoca i nervi»); la fuga verso la Svizzera: «Vivevo un incubo che
non potrò dimenticare. In corpo non avevo che odio smisurato verso i
governanti, verso i ricchi che mi avevano sbattuto fuori casa.»
In Svizzera, ha vissuto per qualche tempo in una
baracca con quindici persone, ma il lavoro gli ha fruttato ben presto
un’autonomia mai vissuta e la possibilità di aiutare la famiglia d’origine e
farsene una propria e di far studiare il fratello minore. Le difficoltà non sono
scomparse: «L’opinione pubblica è incapace di pietà, di amore, di commozione.
Ma si sentono la coscienza a posto, gli svizzeri: hanno fondato la Croce Rossa.
Nessuno può immaginare cosa noi sopportiamo in quel paese. Nessuno. I
giornalisti raccontano frottole. (…) Che vadano a vivere nelle baracche, nei
lager di Baden, in quattro anime in una stanzetta di tre metri per tre. Non si
è liberi di fare un rutto in tranquillità, non ci si può concentrare nei propri
pensieri. Se togliete questo piacere a un lavoratore non so proprio cosa gli
rimanga di interessante nella vita. »
Il prezzo è stato e continua ad essere alto, ma
la realtà del presente non è identica a quella del passato: «Se confronto
l’esistenza di quegli anni, il modo di vivere di tutti, a oggi e al mio
personale modo di vivere e di tutti quelli come me che lavorano al Nord e ci
tornano non più da umiliati pezzi di merda che dovevano sberrettarsi davanti ai
cappelli che non si degnavano di risponderci e che ora sono scomparsi,
polverizzati e i cui rampolli sono di un’ottusità e di un’ignoranza
inimmaginabili, il cuore mi si allarga. Certo è una vittoria che abbiamo
ottenuta a caro prezzo. Ognuno ha imparato, anche il più ottuso, che il
progresso non si arresta più e che altro d’importante avverrà a favore e a
premio dell’intelligenza.»
Anche in Calabria la povertà estrema ha ceduto il
posto ad un crescita di consumi: sulle tavole quotidiane è apparsa la carne di
vitello. L’ambiente, pur con qualche modifica, resta chiuso e non si vede un
effettivo sviluppo economico e sociale: «Dicono che non ci sono più caprai
nell’Aspromonte. Sono scomparsi perfino i vaccari che aravano i campi; né
fabbri ci sono che costruiscono vomeri. Non ci sono sarti né calzolai. Tutti
hanno preso il volo. (…) Non mi ci adatterei più a quest’ambiente. Desidero
tornare a casa, da mia moglie e dai miei figli. Dagli amici di Baden, dagli
amici della Militarstrasse. Da lassù ci sfugge il vero dramma della nostra
terra abbandonata e imbruttita. Da lassù non avvertiamo l’agonia dei villaggi,
dei nostri vecchi. A chi arriva dal verde, dal tutto ordinato e pulito e lindo
e operoso, salta all’occhio questa specie di preludio al deserto che è
diventata la costa che si affaccia sullo Ionio.»
Pubblicato nel 1972 e attualmente fuori commercio
(è possibile trovarne qualche copia cartacea sui siti internet), Noi lazzaroni
di Saverio Strati affronta il tema dell’emigrazione: ancora attuale, per la
Calabria, quasi cinquanta anni dopo: con la variante (l’aggravante?) che siamo
passati da un’esportazione di braccia ad un’esportazione di cervelli.
Documento importante sulla Calabria tra fascismo
e secondo dopoguerra e sul lavoro (quello che manca, quello che è soltanto
martirio, quello che è puro sfruttamento, quello che è esaltazione delle conoscenze,
dell’esperienza, dell’intuito), con una critica forte ad un sistema economico
incapace di produrre un’adeguata crescita sociale e ad una tradizione
fortemente patriarcale che rendeva le donne, «né più né meno che delle asine
che vanno bardate in tutti i momenti in cui se ne ha bisogno», Noi lazzaroni è
una prova narrativa di grande interesse.
Nel monologo-dialogo del protagonista, sapido di
umori, di insofferenze e di passioni e in una ben costruita compresenza di più
livelli temporali, con stile asciutto e linguaggio sobrio, Strati riversa nelle
vicende di Salvatore la personale esperienza di migrante in Svizzera, un
amareggiato e risentito senso civile e la consapevolezza che, come si scopre
nel finale del romanzo, ogni uomo, magari senza volerlo e neppure saperlo, può
innescare per/contro se stesso e gli altri, tragedie che non lasciano scampo.
Zoomsud 8 giugno 2019
La seconda riguarda La teda
https://www.store.rubbettinoeditore.it/rassegna-stampa/le-recensioni-di-maria-franco-la-teda-saverio-strati-rubbettino-07-06-2020/
«Camminavamo da più di quattr’ore per quelle
brutte strade delle montagne di Terrarossa, che è un paesetto proprio nel cuore
dell’Aspromonte. Eravamo quattro muratori: io, Costanzo, mastro Cosmo e mastro
Gianni. Parlavamo di tante cose. “A Terrarossa la gente fa luce con la deda”
diceva Costanzo, che già c’era stato, a Terrarossa. “E com’è possibile fare
luce con una scheggia di pino?” fec’io. “Lo vedrai da te” mi disse Costanzo.
“Non c’è la luce elettrica come al nostro paese; né usano il petrolio o la
lumiera ad olio. A Terrarossa c’è altra gente, altro modo di vivere”. Non
riuscivo ad immaginare gente diversa da quella del mio paese, io. “Io non
capisco come può essere questa gente!” esclamai. (…) “Non è che la gente sia
diversa dalla nostra o da noi stessi, ma è il paese che è diverso. Non c’è la
strada rotabile, manca la farmacia, il medico non c’è mai. È l’ambiente che è
disgraziato. E tutto dipende dall’ambiente”».
C’è un luogo della Calabria narrato quanto
Africo? Da Zanotti Bianco a Stajano a Gioacchino Criaco, al film di Calopresti
tratto dal libro di Pietro Criaco, sono stati in tanti a raccontare un paese di
fascino primigenio, come bloccato in un ferma-immagine, quasi una piccola
Pompei, dall’alluvione del 1951.
Il primo a farne materia di romanzo è stato
Saverio Strati, con La teda, pubblicato nel 1956 da Mondadori ed ora
ripubblicato, nell’ambito della ristampa di tutte le sue opere, da Rubbettino.
Il quindicenne Filippo arriva a Terrarossa, nome
dietro cui si cela Africo, contento «perché non avevo mio padre vicino e
divenivo più libero, incominciavo a diventare più importante. Ora mi davo
perfino ad amoreggiare con le donne che lavoravano con noi. Prima non le potevo
neppure guardare, le donne, con mio padre che non mi dava un po’ di respiro,
con mio padre che non mi dava pace con le sue prediche. Ora no, incominciava
una vita nuova per me.» Desidera «essere un bravo muratore. Essere come mastro
Gianni, che sapeva fare tutto, e come mastro Antonio, che pigliava un progetto
in mano e te lo leggeva», dimostrare al padre di essere migliore del saggio
Costanzo che, fidanzato della sorella, sarebbe presto diventato suo cognato. Ma
il suo interesse primo – una frenesia, un’agitazione fisica e mentale –
riguarda le donne: da corteggiare e, soprattutto, da possedere, anche con la
violenza. Un atteggiamento che rischia di metterlo nei guai e che viene
ampiamente ripreso dai suoi compagni: non perché offende le donne, bensì perché
manca di rispetto ai padri, ai fratelli delle donne cui rivolge le
sue attenzioni. Il grido tra le lacrime della dolce Cicca – «è meglio
nascere capra che donna a Terrarossa!» – ben esprime la particolare
subordinazione delle donne, in una realtà in cui la stragrande maggioranza
della popolazione è subordinata e marginale.
Torrerossa è un paese poverissimo
dell’Aspromonte, senza una strada che lo raggiunga. Lo abitano braccianti
sfruttati da pochi possidenti, pastori senza mandrie e contadini dalla scarsa
terra. Non c’è un medico, si muore facilmente di polmonite. Si mangiano segale
e pane di lenticchie nere, spesso solo castagne; non arriva neppure la poca
farina che, secondo le disposizioni del regime, toccherebbe agli abitanti.
Siamo agli sgoccioli della seconda guerra mondiale, molti giovani si trovano
sotto le armi, chissà dove; le donne aggiungono a lavori più tradizionalmente
femminili, anche più pesanti fatiche.
Filippo si trova davanti al perverso intreccio di
interessi tra i ricchi proprietari, il potere politico, rappresentato dal
potestà e dai carabinieri, e gli uomini d’onore che produce una
miseria senza fine: «Se io sapevo scrivere, parlavo di Terrarossa. Ma nessuno
mi credeva. Perché davvero non c’era da credere che la gente viveva a quel
modo. Se io stesso non vedevo, non credevo.» Quando arriva il
principale che paga i braccianti togliendo loro soldi e diritti, Filippo
comincia a comprendere le cause di tanta grande ingiustizia – «Sentivo d’avere
imparato tantissime cose, in poche ore. Mi pareva di essere cresciuto di dieci
anni. Tutto mi cominciava ad essere chiaro» – e la necessità di allargare la
propria visione del mondo grazie alla lettura.
Pervaso – come a suo tempo scrisse Vittorini –
da allegro stupore e ingenua malinconia, La Teda è un
romanzo di formazione e, insieme, un racconto neorealista che, a distanza di
tanti anni, non ha perso la capacità di dare voce e corpo alla questione
meridionale.Con una denuncia forte delle problematiche culturali, economiche e
sociali (Strati è tra primi a indicare con chiarezza l’emergere della
‘ndrangheta), che non si risolve in vittimismo né in disperazione, ma piuttosto
in volontà d’azione: «Sentivo che tutto il mondo si doveva allargare e che
diveniva luminoso e pieno di nuove voci e di nuovi suoni. Sentivo tante cose in
cuore che non vi so dire, e non desideravo altro che la guerra finisse domani,
per vedere prestissimo le nuove cose che sorgevano, per ripigliare il lavoro
con altro amore»
Narrato in una prima persona che segue sia gli
eventi sia i pensieri di Filippo, privo di retorica, dalla lingua scarna e
veloce, che non disdegna l’iterazione, e dalle rade ma potenti immagini, ricco
di dialoghi di grande vivacità, il romanzo di Strati raggiunge livelli di
altissima letteratura nella descrizione dell’alluvione che distrugge il paese.
Una pioggia che richiama – per potenza narrativa – quella manzoniana che lava
via la peste.
Da Zoomsud 7 giugno 2020
Sul Blog si possono leggere le mie recensioni a
Tibi e Tascia https://conchigliette.blogspot.com/2020/01/tibi-e-tascia-di-saverio-strati.html
e a
Il selvaggio di Santa Venere https://conchigliette.blogspot.com/2017/01/saverio-strati-le-mie-recensioni-per.html