«Il mare Oceano mostrò
che aveva anch’esso una fine. Prima, più che intravvedere, immaginarono una
tenue macchia in mezzo alla foschia. Poi dall’orizzonte cominciò a sollevarsi
qualcosa che poteva essere la terra. Si aprì poco alla volta nei particolari,
acquistando i contorni e colorandosi di Merica. Comparvero infine i palazzoni
di una grande città. E ingombrò il cielo una gigantesca statua di donna con una
fiaccola in mano. (…) Era il tardo pomeriggio del 28 maggio 1902. Avevano
impiegato diciannove giorni di mare.»
Dopo aver superato le
grandi difficoltà del viaggio, Giuseppe rischia di essere fermato ai controlli.
È giovane e forte, ma, la sera precedente, ha mangiato una brodaglia contenente
fave, che gli hanno provocato un malessere fin troppo evidente: «Se appariva in
cattiva salute agli occhi benevoli degli amici, figurarsi a quelli indagatori e
cavillosi degli ispettori sanitari. Ci avrebbero messo un minuto a bollarlo
indesiderato e addio Merica, indietro con un calcio in culo e la stessa nave
con cui era arrivato. Gli veniva da piangere. Si raccomandò alla Madonna del
Carmine, come era solito nella chiesa matrice protopapale sotto la statua
lignea nella navata laterale, non di rado ottenendone ascolto. Stavolta però la
Madonna non sembrò volgersi verso di lui – questione di competenza
territoriale, forse lì si era in un altro mondo»
Sull’isolotto di Ellis
Island, Giuseppe dispera, invoca la morte per sottrarsi allo scorno di dover
tornare in Calabria, deludendo le attese della famiglia che con suoi dollari
sperava di migliorare la proprie condizioni. Finché «un’ombra si allungò sul
pavimento davanti a lui. Giuseppe sollevò lo sguardo e si trovò davanti una
donna giovane, con un volto dolce, sereno, bello. Era al di là delle transenne.
Teneva in braccio un bambino piccolo, bianco e rosso di colorito. Si stagliava
contro il finestrone che si apriva sulla baia e sulla statua della libertà. Gli
rivolgeva un sorriso tenue, rassicurante. Indossava una veste azzurra, che le
scendeva a pieghe, uno scialle, in testa un fazzoletto bianco ricamato.
Incuteva un senso di rispetto, per il portamento, per i modi, per la serenità
di cui era avvolta. - Giuseppe, ne soffiò il nome.»
Gli fa attraversare un
salone, poi una scala, una porta, un’altra scala: «- Sei entrato in America, -
gli comunicò.» Incredulo e felice, Giuseppe non ha dubbi che la signora
di Ellis Island sia la Madonna, proprio quella del suo paese. Il miracolo
di quest’apparizione diventa così il filo rosso intorno a cui si svolgono tutte
le successive vicende della sua vita.
Il lavoro in miniera a
Mingo Junnction nell’Ohio; la morte del giovane Ehitù «inghiottito dal carbone,
dalle rocce, dai legni» nell’inferno esploso per lo scoppio del gas;
l’esperienza in fonderia a Pittsburg; la bella Sara che gli fa dimenticare
Assunta, che gli aveva promesso d’aspettarlo ma s’era sposata dopo qualche mese
dalla sua partenza; il lavoro in una fabbrica di carta a Baltimore.
E, poi, il ritorno in Italia, lo sbarco a Napoli il 14 aprile del 1907 e il giorno dopo l’arrivo al paese, nella piana di Gioia Tauro; l’acquisto di un pezzo di terra, da aggiungere alle piccole proprietà della famiglia; le annate buone e quelle non buone dell’olio; il matrimonio con Anna Maria, scelta per lui dai genitori; la nascita dei figli (alla fine, ce ne saranno dieci, di vivi): «I maschi perpetuavano il nome. E occorrevano molto più delle femmine. Per la mancanza di maschi adulti ci erano voluti i suoi cinque anni d’America. Per quanto, a cose fatte, era contento di esserci stato. Non si sarebbe trovato a quel punto altrimenti: Anna Maria veniva figlia all’America. Non ci fosse andato, non avrebbe posseduto campagna, Ciccio Sopo sarebbe stato irremovibile e lui stesso non avrebbe osato alzarle gli occhi addosso.»
E, poi, il ritorno in Italia, lo sbarco a Napoli il 14 aprile del 1907 e il giorno dopo l’arrivo al paese, nella piana di Gioia Tauro; l’acquisto di un pezzo di terra, da aggiungere alle piccole proprietà della famiglia; le annate buone e quelle non buone dell’olio; il matrimonio con Anna Maria, scelta per lui dai genitori; la nascita dei figli (alla fine, ce ne saranno dieci, di vivi): «I maschi perpetuavano il nome. E occorrevano molto più delle femmine. Per la mancanza di maschi adulti ci erano voluti i suoi cinque anni d’America. Per quanto, a cose fatte, era contento di esserci stato. Non si sarebbe trovato a quel punto altrimenti: Anna Maria veniva figlia all’America. Non ci fosse andato, non avrebbe posseduto campagna, Ciccio Sopo sarebbe stato irremovibile e lui stesso non avrebbe osato alzarle gli occhi addosso.»
La partecipazione alla
prima guerra mondiale: «Non provava l’amore di patria di cui si riempivano la
bocca certi nobili che andavano a letto a pancia sazia del meglio e che,
essendo anziani, avrebbero continuato a svernare al calduccio in paese. La sua
patria era la famiglia. I suoi confini, la corona di monti che avevano intorno.
A voler esagerare, lo spicchio di mare che nei giorni chiari colorava l’ultimo
orizzonte. E non certo Taranto o Trieste o Gorizia»
La morte della prima e
della seconda figlia Antonia, entrambe finite bambine, e il matrimonio di
livello sociale inatteso della terza. Ciccio, il secondogenito dei maschi che diventa
prete «Fu in quel mattino (…) che intravide la luce oltre il buio. Che comprese
l’inutile attesa di un botto: la chiamata per lui c’era stata senza che se ne
fosse reso conto, contenuta nel desiderio di soccorrere il bisogno, darsi agli
altri, spartirne le pene, aiutarli nella rassegnazione, contenuta nella
serenità e nella completezza che avvertiva dentro il conforto di una chiesa,
nell’accostarsi con le preghiere al Signore». E Saverio, il primo dei maschi,
che, rifiutandosi alle attese paterne che lo volevano indirizzare al sacerdozio
per ripagare il miracolo della signora di Ellis Island, avrebbe dovuto
continuare a fare il contadino e invece riesce a prendere un diploma e diventa
radiotelegrafista in Libia e poi in Abissinia. Dove, lui che poco mastica
di politica, conosce anche gli aspetti oscuri del colonialismo fascista.
A Saverio, lo zio
Rosario, ormai prossimo alla morte, rivelerà che «quella Madonna che ha
soccorso tuo padre a Ellis Island non era la Madonna. (…) Era una donnetta
così. Non dico di malaffare, però… (…) La Madonna? La Madonna. (…) Lui ne è
convinto, lo ha aiutato a fare una vita retta, vi ha cresciuti come si doveva.
(…) Toccava a te saperla questa cosa che vi ha cambiato la vita in meglio, a te
sicuro, a tuo fratello Ciccio non so, forse sì forse no.»
Dei libri di autori
calabresi e/o che trattino di Calabria pubblicati in questo primo scorcio del
terzo millennio, quello da cui non si può assolutamente prescindere –
che va letto e riletto – è La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi
(Einaudi editore; prima edizione gennaio 2011)
Un libro forte, potente,
dallo stile sobrio e sanguigno, che si colloca tra le opere più belle della
nostra letteratura contemporanea: bellissimo tutto, meglio se la saga di
Giuseppe e della sua famiglia fosse stata divisa in tre parti (stringendo la
seconda e dedicando la terza a Ciccio e Saverio), straordinarie le prime 226
pagine sull’esperienza dell’emigrazione in America.
Un libro che squaderna
pagina dopo pagina la carne e il sangue della Calabria più vera del Novecento:
quella contadina, abituata al lavoro e al sacrificio, al ritmo di giorni che si
ripetono uguali, secondo le stagioni. Che può perdere il sudore di un intero
anno per una levantina che distrugge il previsto raccolto di olive. Che
trova forza in una fede semplice (non esente da aspetti magici) e nel
culto della famiglia, con matrimoni costruiti sulla base di
opportunità economico-sociali, ma non privi di affetto. E che, nonostante i
limiti della propria visione del mondo – che non guarda molto al di là della
propria casa e relega le donne, sul cui comportamento si gioca l’onore di
tutti, in una diuturna fatica silenziosa – sembra tuttavia trasudare qualcosa
di non lontano dall’essenza più sacra della vita umana.
La fatica di fare, ogni generazione, un passo avanti rispetto alla precedente, assumendosi la responsabilità di scelte dolorose (l’emigrazione) o accettando di attraversare con umanità prove che mai si vorrebbero vivere (la prima guerra mondiale), e comprendendo che la crescita avviene soprattutto attraverso l’istruzione. Prima impossibile per tutti, poi aperta al primo maschio, dopo, raggiunto un po’ di benessere economico, ai figli più piccoli, maschi e femmine.
Oggi che le giovani generazioni rischiano di avere un futuro peggiore della propria infanzia, può diventare più chiaro che la fatica da compiere per crescere, col tempo, in umanità, è sì una fatica, ma è, anche, miracolo. Dipende dalla fede in una luce di bene che si accende in noi, dall’accettazione dei limiti propri e delle circostanze e dal compiere con dignità il proprio dovere senza dimenticare i propri sogni.
Un libro che nessun calabrese e, soprattutto, nessuna scuola calabrese si può permettere di ignorare. In cui tutti quelli più anziani o coevi alla mia generazione possono trovare molti aspetti della propria storia familiare e quelli più giovani possono scoprire che veniamo da una storia recente (anche se appare molto lontana) di cui dobbiamo essere orgogliosi e in cui possiamo trovare la spinta per meglio affrontare presente e futuro.
La fatica di fare, ogni generazione, un passo avanti rispetto alla precedente, assumendosi la responsabilità di scelte dolorose (l’emigrazione) o accettando di attraversare con umanità prove che mai si vorrebbero vivere (la prima guerra mondiale), e comprendendo che la crescita avviene soprattutto attraverso l’istruzione. Prima impossibile per tutti, poi aperta al primo maschio, dopo, raggiunto un po’ di benessere economico, ai figli più piccoli, maschi e femmine.
Oggi che le giovani generazioni rischiano di avere un futuro peggiore della propria infanzia, può diventare più chiaro che la fatica da compiere per crescere, col tempo, in umanità, è sì una fatica, ma è, anche, miracolo. Dipende dalla fede in una luce di bene che si accende in noi, dall’accettazione dei limiti propri e delle circostanze e dal compiere con dignità il proprio dovere senza dimenticare i propri sogni.
Un libro che nessun calabrese e, soprattutto, nessuna scuola calabrese si può permettere di ignorare. In cui tutti quelli più anziani o coevi alla mia generazione possono trovare molti aspetti della propria storia familiare e quelli più giovani possono scoprire che veniamo da una storia recente (anche se appare molto lontana) di cui dobbiamo essere orgogliosi e in cui possiamo trovare la spinta per meglio affrontare presente e futuro.
Ma La signora di
Ellis Island è tutt’altro che un libro confinabile nella letteratura
regionale, anche di alto livello. È un capolavoro, con il respiro
ampio delle opere universali.
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