giovedì 23 febbraio 2017

La signora di Mimmo Gangemi: le mie recensioni per Zoomsud








«Il mare Oceano mostrò che aveva anch’esso una fine. Prima, più che intravvedere, immaginarono una tenue macchia in mezzo alla foschia. Poi dall’orizzonte cominciò a sollevarsi qualcosa che poteva essere la terra. Si aprì poco alla volta nei particolari, acquistando i contorni e colorandosi di Merica. Comparvero infine i palazzoni di una grande città. E ingombrò il cielo una gigantesca statua di donna con una fiaccola in mano. (…) Era il tardo pomeriggio del 28 maggio 1902. Avevano impiegato diciannove giorni di mare.» 

Dopo aver superato le grandi difficoltà del viaggio, Giuseppe rischia di essere fermato ai controlli. È giovane e forte, ma, la sera precedente, ha mangiato una brodaglia contenente fave, che gli hanno provocato un malessere fin troppo evidente: «Se appariva in cattiva salute agli occhi benevoli degli amici, figurarsi a quelli indagatori e cavillosi degli ispettori sanitari. Ci avrebbero messo un minuto a bollarlo indesiderato e addio Merica, indietro con un calcio in culo e la stessa nave con cui era arrivato. Gli veniva da piangere. Si raccomandò alla Madonna del Carmine, come era solito nella chiesa matrice protopapale sotto la statua lignea nella navata laterale, non di rado ottenendone ascolto. Stavolta però la Madonna non sembrò volgersi verso di lui – questione di competenza territoriale, forse lì si era in un altro mondo»

Sull’isolotto di Ellis Island, Giuseppe dispera, invoca la morte per sottrarsi allo scorno di dover tornare in Calabria, deludendo le attese della famiglia che con suoi dollari sperava di migliorare la proprie condizioni. Finché «un’ombra si allungò sul pavimento davanti a lui. Giuseppe sollevò lo sguardo e si trovò davanti una donna giovane, con un volto dolce, sereno, bello. Era al di là delle transenne. Teneva in braccio un bambino piccolo, bianco e rosso di colorito. Si stagliava contro il finestrone che si apriva sulla baia e sulla statua della libertà. Gli rivolgeva un sorriso tenue, rassicurante. Indossava una veste azzurra, che le scendeva a pieghe, uno scialle, in testa un fazzoletto bianco ricamato. Incuteva un senso di rispetto, per il portamento, per i modi, per la serenità di cui era avvolta. - Giuseppe, ne soffiò il nome.» 

Gli fa attraversare un salone, poi una scala, una porta, un’altra scala: «- Sei entrato in America, - gli comunicò.» Incredulo e felice, Giuseppe non ha dubbi che la signora di Ellis Island sia la Madonna, proprio quella del suo paese. Il miracolo di quest’apparizione diventa così il filo rosso intorno a cui si svolgono tutte le successive vicende della sua vita.
Il lavoro in miniera a Mingo Junnction nell’Ohio; la morte del giovane Ehitù «inghiottito dal carbone, dalle rocce, dai legni» nell’inferno esploso per lo scoppio del gas; l’esperienza in fonderia a Pittsburg; la bella Sara che gli fa dimenticare Assunta, che gli aveva promesso d’aspettarlo ma s’era sposata dopo qualche mese dalla sua partenza; il lavoro in una fabbrica di carta a Baltimore.

E, poi, il ritorno in Italia, lo sbarco a Napoli il 14 aprile del 1907 e il giorno dopo l’arrivo al paese, nella piana di Gioia Tauro; l’acquisto di un pezzo di terra, da aggiungere alle piccole proprietà della famiglia; le annate buone e quelle non buone dell’olio; il matrimonio con Anna Maria, scelta per lui dai genitori; la nascita dei figli (alla fine, ce ne saranno dieci, di vivi): «I maschi perpetuavano il nome. E occorrevano molto più delle femmine. Per la mancanza di maschi adulti ci erano voluti i suoi cinque anni d’America. Per quanto, a cose fatte, era contento di esserci stato. Non si sarebbe trovato a quel punto altrimenti: Anna Maria veniva figlia all’America. Non ci fosse andato, non avrebbe posseduto campagna, Ciccio Sopo sarebbe stato irremovibile e lui stesso non avrebbe osato alzarle gli occhi addosso.»

La partecipazione alla prima guerra mondiale: «Non provava l’amore di patria di cui si riempivano la bocca certi nobili che andavano a letto a pancia sazia del meglio e che, essendo anziani, avrebbero continuato a svernare al calduccio in paese. La sua patria era la famiglia. I suoi confini, la corona di monti che avevano intorno. A voler esagerare, lo spicchio di mare che nei giorni chiari colorava l’ultimo orizzonte. E non certo Taranto o Trieste o Gorizia»

La morte della prima e della seconda figlia Antonia, entrambe finite bambine, e il matrimonio di livello sociale inatteso della terza. Ciccio, il secondogenito dei maschi che diventa prete «Fu in quel mattino (…) che intravide la luce oltre il buio. Che comprese l’inutile attesa di un botto: la chiamata per lui c’era stata senza che se ne fosse reso conto, contenuta nel desiderio di soccorrere il bisogno, darsi agli altri, spartirne le pene, aiutarli nella rassegnazione, contenuta nella serenità e nella completezza che avvertiva dentro il conforto di una chiesa, nell’accostarsi con le preghiere al Signore». E Saverio, il primo dei maschi, che, rifiutandosi alle attese paterne che lo volevano indirizzare al sacerdozio per ripagare il miracolo della signora di Ellis Island, avrebbe dovuto continuare a fare il contadino e invece riesce a prendere un diploma e diventa radiotelegrafista in Libia e poi in Abissinia.  Dove, lui che poco mastica di politica, conosce anche gli aspetti oscuri del colonialismo fascista. 

A Saverio, lo zio Rosario, ormai prossimo alla morte, rivelerà che «quella Madonna che ha soccorso tuo padre a Ellis Island non era la Madonna. (…) Era una donnetta così. Non dico di malaffare, però… (…) La Madonna? La Madonna. (…) Lui ne è convinto, lo ha aiutato a fare una vita retta, vi ha cresciuti come si doveva. (…) Toccava a te saperla questa cosa che vi ha cambiato la vita in meglio, a te sicuro, a tuo fratello Ciccio non so, forse sì forse no.»
Dei libri di autori calabresi e/o che trattino di Calabria pubblicati in questo primo scorcio del terzo millennio, quello da cui non si può assolutamente prescindere – che va letto e riletto – è La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi (Einaudi editore; prima edizione gennaio 2011)

Un libro forte, potente, dallo stile sobrio e sanguigno, che si colloca tra le opere più belle della nostra letteratura contemporanea: bellissimo tutto, meglio se la saga di Giuseppe e della sua famiglia fosse stata divisa in tre parti (stringendo la seconda e dedicando la terza a Ciccio e Saverio), straordinarie le prime 226 pagine sull’esperienza dell’emigrazione in America.

Un libro che squaderna pagina dopo pagina la carne e il sangue della Calabria più vera del Novecento: quella contadina, abituata al lavoro e al sacrificio, al ritmo di giorni che si ripetono uguali, secondo le stagioni. Che può perdere il sudore di un intero anno per una levantina che distrugge il previsto raccolto di olive. Che trova forza in una fede semplice (non esente da aspetti magici) e nel culto della famiglia, con matrimoni costruiti sulla base di opportunità economico-sociali, ma non privi di affetto. E che, nonostante i limiti della propria visione del mondo – che non guarda molto al di là della propria casa e relega le donne, sul cui comportamento si gioca l’onore di tutti, in una diuturna fatica silenziosa – sembra tuttavia trasudare qualcosa di non lontano dall’essenza più sacra della vita umana.

La fatica di fare, ogni generazione, un passo avanti rispetto alla precedente, assumendosi la responsabilità di scelte dolorose (l’emigrazione) o accettando di attraversare con umanità prove che mai si vorrebbero vivere (la prima guerra mondiale), e comprendendo che la crescita avviene soprattutto attraverso l’istruzione. Prima impossibile per tutti, poi aperta al primo maschio, dopo, raggiunto un po’ di benessere economico, ai figli più piccoli, maschi e femmine.

Oggi che le giovani generazioni rischiano di avere un futuro peggiore della propria infanzia, può diventare più chiaro che la fatica da compiere per crescere, col tempo, in umanità, è sì una fatica, ma è, anche, miracolo. Dipende dalla fede in una luce di bene che si accende in noi, dall’accettazione dei limiti propri e delle circostanze e dal compiere con dignità il proprio dovere senza dimenticare i propri sogni.

Un libro che nessun calabrese e, soprattutto, nessuna scuola calabrese si può permettere di ignorare. In cui tutti quelli più anziani o coevi alla mia generazione possono trovare molti aspetti della propria storia familiare e quelli più giovani possono scoprire che veniamo da una storia recente (anche se appare molto lontana) di cui dobbiamo essere orgogliosi e in cui possiamo trovare la spinta per meglio affrontare presente e futuro.
Ma La signora di Ellis Island è tutt’altro che un libro confinabile nella letteratura regionale, anche di alto livello.  È un capolavoro, con il respiro ampio delle opere universali.



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