«Mi
chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me.
Cosa?
In che senso?
Nel
senso che siamo tutte e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo
tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti
andrebbe di venire da me, la notte. E parlare.
Lui
la fissò, rimase a osservarla incuriosito, cauto.
Non
dici nulla. Ti ho lasciato senza parole? Chiese lei.
Penso
proprio di sì.
Non
parlo di sesso.
Me
lo stavo chiedendo.
No,
non intendo questo. Credo di aver perso qualsiasi impulso sessuale un sacco di
tempo fa. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starcene al caldo
nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire.
Le notti sono la cosa peggiore, non trovi? »
Avevo
già letto e molto apprezzato la Trilogia della
Pianura di Haruf, ne conoscevo lo stilo scarno e potente. Ciò nonostante, Le nostre anime di notte, il suo libro
postumo, appena pubblicato da NN, mi ha spiazzato.
Davvero
indimenticabile la storia, dominata da un senso d’urgenza, “prima che sia
troppo tardi”, di due vedovi settantenni di Holt, l’immaginaria cittadina del
Colorado dei romanzi di Haruf.
Addie
Moore e Luis Waters, scoprono di poter superare la sostanziale, non detta, dignitosa
disperazione delle loro vite, trascorrendo le notti insieme.
Ma
saranno costretti a scegliere tra libertà personale e senso di responsabilità
sociale, trovando forme meno intime per continuare a riscaldarsi con la luce
dolce e morbida delle loro parole: «Ma stiamo andando avanti, non è vero? Disse
lei. Stiamo continuando a parlare. Fin quando potremo. Finché dura.»
Haruf
ha scritto Le nostre anime di notte quando
stava già molto male, per “non rimanere qui seduto ad aspettare”, convinto di “riuscire
a scrivere ogni giorno”: “L’idea di provare a lasciare una traccia di ne era
parte di quanto avevo in mente.”
L’incontro
di due persone anziane che trovano un modo per arricchire la loro vita, quando più
non pensavano di poterle dare una svolta, risente della necessità dell’autore di
non darla del tutto vinta alla morte imminente ed accresce l’emozione profonda
che il libro trasmette.
***
«Salivo
a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di
scarpe confuse. Sul pianerottolo mi ha accolto l’odore di fritto recente e un’attesa.
(…) Dopo lo scatto metallico è comparsa una bambina con le trecce allentate
vecchie di qualche giorno. Era mia sorella, ma non l’avevo mai vista.» A
tredici anni, una bambina è costretta a lasciare quelli che ritiene i suoi
genitori per tornare a vivere nella sua effettiva famiglia: i genitori e i
numerosi fratelli stipati in una casa ben diversa da quella dove è cresciuta
amorevolmente accudita. È un piccolo mondo povero, ignorante, dalle scarne
parole e dai gesti senza gentilezza.
«Ero
l’Arminuta, la Ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi
appartenere. La parola mamma si era annidata nella mia gola come un rospo. (…)
oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la
salute, un riparo, una certezza. È un vuoto persistente, che conosco ma non
supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte
toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho
mai perduto è quella delle mie paure.»
L'aiuta a ritessere i fili di una vita strappata la sorella Adriana: «Come un fiore
improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei
ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il
senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci
siamo salvate.»
Donatella
Di Pietrantonio – che ha esordito nel 2011 con Mia madre è un fiume, Elliot editore; Premio Tropea – si conferma con
L’Arminuta, recentemente edito da
Einaudi, una delle voce più autentiche della nostra narrativa. Abruzzese,
sembra riprendere dalla sua terra natale, una scrittura aspra, addirittura
ruvida, ma con accensioni improvvise di emozioni.
Molto
particolare il taglio con cui guarda alla maternità e alla sorellanza (bellissima la raffigurazione
di Adriana, bambina dai ragionamenti adulti e dalle parole senza filtri) e
altrettanto personale la lingua con cui ne parla.
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