lunedì 13 febbraio 2017

Io e Roberto Baggio



Stamattina ho postato su fb un articolo di Repubblica sui prossimi cinquanta anni di Baggio con un commento sulla sua importanza per me. Un mio amico, stupito, me ne ha chiesto conto. Provo a spiegare il perché.



Domenica 10 maggio 1987 è stato il giorno più azzurro della storia di Napoli. 

Mare e cielo incantevoli, un tripudio le strade, i negozi, le persone per strada: la città era tutta festoni azzurri, disposti e intrecciati nei modi più creativi. Per la contemporanea festa della mamma, le torte mimosa non erano decorate con fiorellini gialli, ma con la faccia di Maradona, naturalmente in azzurro.

La città viveva il primo scudetto come una favola: si sentiva la Cenerentola diventata principessa e viveva sospesa in un incanto, come se il dolore, la morte, qualunque pena e turbamento in quel pomeriggio non potessero sfiorarla.

Io non ero interessata al calcio (da piccola avevo molto amato Omar Sivori, ma era un ricordo lontano) e neppure allo scudetto del Napoli, ma condividevo la gioia della città.

Come migliaia e migliaia di persone, ero per strada, mentre si giocava l’ultima di campionato. 

Fuorigrotta era un fiume d’azzurro, che si snodava danzando, allegro più di tutte le allegrie del mondo messe insieme, colorato come se, in quell’azzurro, ci fossero tutti i colori del mondo.

Quando dalle radioline arrivò la notizia che la Fiorentina aveva pareggiato, qualcuno commentò: “Meglio così, fanno festa anche loro.”

Di sera, dalla tv, capii che, senza quel gol, la Fiorentina, quel pomeriggio, mentre Napoli era tutta una festa, sarebbe stata retrocessa in B. Parlarono per ore di Maradona e compagni e per qualche secondo del ragazzo che, con una punizione magistrale, aveva fatti restare i viola in A.

Da quel momento, ho seguito la carriera e la vita di Baggio. 

Ho tifato per le varie squadre in cui ha giocato, sono andata allo stadio per vederlo (il gol suo più bello che ho vissuto in diretta, al San Paolo, è con maglia azzurra della nazionale, in un’Italia-Polonia), ho letto i suoi libri (Una porta nel cielo e Un sogno dopo, editi da Limina) e, per capire le sue scelte, ho anche approfondito le mie conoscenze del buddismo. 

Mi ha fatto bella compagnia molte domeniche (l’ora delle partite era quella che passavo a stirare il bucato settimanale). Posso ricostruire fatti della mia vita personale e familiare intorno a certe partite di cui è stato protagonista.

Il suo gol alla Cecoslovacchia durante Italia 90, per me, è il gol per eccellenza, ma quello alla Nigeria, ai mondiali americani, che consentì alla Nazionale di rimettersi in corsa a pochi minuti dall’eliminazione, resta quello cui sono più legata.

Subito dopo i mondiali americani ho curato a Nisida uno dei progetti didattici multidisciplinari di cui sono più contenta: L’Italia attraverso il campionato di calcio. Ogni mattina compravo e portavo a scuola i tre principali quotidiani sportivi del momento da leggere in classe. Quattro giorni su cinque, c’erano titoloni a nove colonne su Baggio, alcuni articoli sfioravano, nei suoi confronti, l’idolatria. Mi chiedevo spesso come può una persona rimanere normale in un mondo così sopra le righe. 

Ecco: a me sembra che lui, un fuoriserie assoluto, ha saputo diventare sempre più una persona normale. La considero una grande lezione di vita e di sport.

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