Stamattina
ho postato su fb un articolo di Repubblica sui prossimi cinquanta anni di
Baggio con un commento sulla sua importanza per me. Un mio amico, stupito, me
ne ha chiesto conto. Provo a spiegare il perché.
Domenica
10 maggio 1987 è stato il giorno più azzurro della storia di Napoli.
Mare
e cielo incantevoli, un tripudio le strade, i negozi, le persone per strada: la
città era tutta festoni azzurri, disposti e intrecciati nei modi più creativi.
Per la contemporanea festa della mamma, le torte mimosa non erano decorate con
fiorellini gialli, ma con la faccia di Maradona, naturalmente in azzurro.
La
città viveva il primo scudetto come una favola: si sentiva la Cenerentola
diventata principessa e viveva sospesa
in un incanto, come se il dolore, la morte, qualunque pena e turbamento in quel
pomeriggio non potessero sfiorarla.
Io
non ero interessata al calcio (da piccola avevo molto amato Omar Sivori, ma era
un ricordo lontano) e neppure allo scudetto del Napoli, ma condividevo la gioia
della città.
Come
migliaia e migliaia di persone, ero per strada, mentre si giocava l’ultima di
campionato.
Fuorigrotta
era un fiume d’azzurro, che si snodava danzando, allegro più di tutte le
allegrie del mondo messe insieme, colorato come se, in quell’azzurro, ci
fossero tutti i colori del mondo.
Quando
dalle radioline arrivò la notizia che la Fiorentina aveva pareggiato, qualcuno
commentò: “Meglio così, fanno festa anche loro.”
Di
sera, dalla tv, capii che, senza quel gol, la Fiorentina, quel pomeriggio,
mentre Napoli era tutta una festa, sarebbe stata retrocessa in B. Parlarono per
ore di Maradona e compagni e per qualche secondo del ragazzo che, con una punizione
magistrale, aveva fatti restare i viola in A.
Da
quel momento, ho seguito la carriera e la vita di Baggio.
Ho
tifato per le varie squadre in cui ha giocato, sono andata allo stadio per
vederlo (il gol suo più bello che ho vissuto in diretta, al San Paolo, è con
maglia azzurra della nazionale, in un’Italia-Polonia), ho letto i suoi libri (Una porta nel cielo e Un sogno dopo, editi da Limina) e, per
capire le sue scelte, ho anche approfondito le mie conoscenze del buddismo.
Mi
ha fatto bella compagnia molte domeniche (l’ora delle partite era quella che
passavo a stirare il bucato settimanale). Posso ricostruire fatti della mia
vita personale e familiare intorno a certe partite di cui è stato protagonista.
Il
suo gol alla Cecoslovacchia durante Italia 90, per me, è il gol per eccellenza, ma quello alla Nigeria, ai mondiali
americani, che consentì alla Nazionale di rimettersi in corsa a pochi minuti
dall’eliminazione, resta quello cui sono più legata.
Subito
dopo i mondiali americani ho curato a Nisida uno dei progetti didattici
multidisciplinari di cui sono più contenta: L’Italia
attraverso il campionato di calcio. Ogni mattina compravo e portavo a
scuola i tre principali quotidiani sportivi del momento da leggere in classe. Quattro
giorni su cinque, c’erano titoloni a nove colonne su Baggio, alcuni articoli
sfioravano, nei suoi confronti, l’idolatria. Mi chiedevo spesso come può una
persona rimanere normale in un mondo
così sopra le righe.
Ecco:
a me sembra che lui, un fuoriserie assoluto, ha saputo diventare sempre più una
persona normale. La considero una
grande lezione di vita e di sport.
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