«C’è una
scrittrice unica in Italia. Ha cinquantacinque anni, e ogni giorno lavora nel
suo studio dentistico a Penne, in Abruzzo, e per scrivere si alza molto presto
al mattino e fra le cinque e le sette procede “per lampi”, come dice lei.
Attraverso questi lampi, Donatella di Pietrantonio ha scritto romanzi e
racconti di grande potenza e l’ultimo suo libro è una perla.» Così Matteo Nucci su Robinson di Repubblica (domenica 19/2/2017).
È
vero: L’Arminuta (edizioni Einaudi),
cui ho dedicato un post il 18 febbraio, è una perla
(forse è un po’ presto per dirlo, ma già si candida autorevolmente a miglior
libro italiano dell’anno) e la sua autrice è una scrittrice unica in Italia: per l’originalità della scrittura,
la forza nel narrare, da prospettive diverse e particolari, il tema della
maternità, il coraggio con cui affronta il racconto del presente, la capacità di essere del tutto dentro un mondo e di trascenderlo: non c'è una sua frase che non trasudi Abruzzo, ma le sue sono storie universali.
Prima
dell’Arminuta, ha pubblicato, nel
2011, Mia madre è un fiume e, nel
2014, Bella mia (titolo ripreso da
una canzone tradizionale dedicata all’Aquila, Aquila
bella mé…te vojo revetè), entrambi editi da Elliot.
Bella
mia
«Avevo già
paura, la sera del 5 aprile. (…) Anche il terremoto non guariva, era
un’epilessia profonda della terra insorta da un momento all’altro e non
smetteva più. Sotto di noi le convulsioni si ripetevano da mesi, senza uno
schema, una regolarità, ora più intense, ora appena percettibili, secondo una
sequenza disordinata e snervante.
Cantavano
gli uccelli notturni, uno in particolare ripeteva sempre lo stesso chiù
monotono. Ho creduto di riconoscere l’assiolo, una volta Roberto ci aveva detto
che il suo verso è un Mi bemolle. Nemmeno il tempo di chiedermi che ci facesse
un assiolo in centro, hanno taciuto, tutti insieme. Quasi nello stesso istante
si sono messi ad abbaiare i cani, in coro, a cerchio, dai palazzi e più
lontano, dalle campagne e dalle frazioni della città. Davano l’allarme per
quello che arrivava, nella loro lingua inascoltata. Confusa tra le altre, la
voce di Bric da Onna latrava contro la resistenza del suo padrone e io non ne
sapevo niente. Di colpo mi ha investito l’aria dura, non il vento, una massa
compatta di aria percossa. Sono rientrata con un salto ed è cominciato.
Il
frastuono si era attenuato, reso elastico dal moto ondulatorio della casa che
non sussultava più. Qualcuno aveva diminuito la velocità del frullatore matto
che ci conteneva. Le piastrelle del pavimento sollevate da bolle d’aria avevano
smesso di saltare con versi di papere allegre. Lo specchio a parete sembrava
caduto e infranto già da molto tempo e i mobili finivano di sbattersi selvaggi
contro i muri. Si addolcivano anche le onde sotto il tavolo dove ci eravamo
rifugiati, e la nausea, il capogiro, la stretta alla testa. Il terremoto doveva
essersi fermato, continuavamo a oscillare per inerzia.
Solo
allora ho sentito l’aria gelida e i suoni del nostro mondo ferito a morte. Le
sirene delle ambulanze. Urla, pianti, invocazioni di aiuto, voci concitate da
ogni strada. Le pale degli elicotteri sopra la città. Ho avuto paura che quel
minimo spostamento d’aria la sprofondasse per sempre, con noi.»
Il terremoto del 2009, che
distrugge case e uccide persone, costringe Caterina, per la morte della gemella
Olivia, a fare da madre al nipote adolescente Marco, alto, secco, capellone,
che, alle inquietudini e agli squilibri propri dell’adolescenza, unisce le
tensioni dell’essere orfano e in non buoni rapporti col padre, che si era
separato dalla madre. E, nello stesso tempo, la fa tornare figlia di famiglia, a vivere con la mamma, in una delle C.A.S.E. (Complessi
Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili) che stradicano dalle relazioni
affettive abituali e ne creano di provvisorie, in attesa che ognuno possa avere
una casa stabile, che non sarà, però,
quella in cui è vissuto e dove restano le presenze più care.
«Potevamo
scambiarci la morte, come ci siamo sempre scambiate i vestiti, i libri, le
occasioni. La sua vita sarebbe stata più utile, avrebbe cresciuto il ragazzo.
Gli avrebbe curato l’acne e la fatica di diventare adulto. (…) … non ne ho mai
voluti di bambini, non mi sono mai creduta capace di provvedere a un altro, già
è troppo stare in piedi da sola. (…) Ci ha lasciato in eredità un adolescente,
con lui annaspo. Un momento mi mostro rigida, subito dopo sono colpevole e gli
cedo sotto il peso del suo lutto.
Non
sono madre, lui non è frutto di questo ventre magro. È un altro, nato da
un’altra quasi uguale a me. Io non lo amo, spesso non lo amo, quando rientro a
casa e annuso la sua presenza sento un disagio nello stomaco e poi cado sotto
gli spari dei suoi occhi. Mi spaventa, come l’enormità del mio compito. Dovrei
essergli mamma di scorta. Invece sono ancora la supplente di prima nomina
incapace di affrontare la classe turbolenta.»
«Non
avevamo bisogno del terremoto. Ognuno possedeva già i suoi dolori.»,
accentuati dal sisma e dalla ricostruzione lenta e discutibile. Ma nel farsi
carico dei problemi della madre e del nipote, Caterina comincia a ricostruire
se stessa, a trovare ragioni di vita che, già precedentemente alla furia del
terremoto, non sentiva più di avere.
Appassionato atto d’amore
nei confronti dell’Abruzzo e della sua gente, il romanzo di Donatella Di
Pietrantonio procede per silenzi e urla rapprese nelle statue che Caterina
modella, tra i ricordi del passato e i problemi del presente, in un movimento che
sembra riprodurre, anche nella plastica evidenza della lingua, i tormentosi
sussulti della terra.
Nella «somma dolorosa
degli anni» si apre un po’ di speranza per la nonna: «Ci guardiamo un attimo,
io e lei, una sola lacrima felice le bagna la profondità di una ruga. Nostro
nipote tornerà, almeno per un altro anno scolastico.» Ma anche per Marco, che
parte per accompagnare il padre musicista in turnè, e per Caterina, che riesce ad
accogliere il sentimento di Sandro.
Luci che non hanno nulla
di posticcio lieto fine, ma conservano la ruvidezza di una vita che riconosce
la preziosità del suo esistere ed andare avanti senza nulla dimenticare.
Mia
madre è un fiume
Queste le mie note, sul
mio blog di allora, su Mia madre è un
fiume, al momento della pubblicazione, poi riprese su Zoomsud in occasione della vittoria, nel luglio 2011, del Premio
Tropea:
«’Tu sei Esperina Viola, mia madre. Come una
viola sei nata il venticinque marzo millenovecentoquarantadue, in una casa di
confine tra i due piccoli comuni di Colledara e Tossicia. Sei figlia di una
licenza elementare, e anche qualcuna delle tue sorelle.»
Mia madre è un fiume, Elliot editore – esordio narrativo della
quarantottenne dentista abruzzese Donatella Di Pietrantonio – è la storia di un
difficile rapporto madre-figlia: «Il nostro amore è andato storto, da subito. Era troppo
educata al sacrificio per permettersi il piacere di stare con la sua creatura.
(…) Lei mi amava, ma aveva altro da fare. Lavorava, per sua figlia. Non venivo
prima nei suoi pensieri e non l’ho sopportato. (…) Mi ha educata al sacrificio,
la sveglia era alle sette anche a scuola chiusa, per non abituarmi all’ozio.
Diceva che fa bene l’aria fresca del mattino. Ho disubbidito e sono colpevole
per ogni felicità gratuita. Per ogni volta che non ci devo sputare il sangue.
Misuro l’altezza del mio tradimento.»
Nel suo monologo, fluviale e, insieme, sincopato – un
flusso di pensieri di ondeggiante linearità, che si allargano, si interrompono,
ricominciano, si ripetono, hanno fretta di dirsi e, talvolta, si fermano per
prendere un attimo di respiro – la figlia racconta la storia di Esperia,
primogenita di sei sorelle e un fratello, figli di Fioravante e di Serafina,
contadini di un Abruzzo luminoso e aspro.
Ne emerge, nitida, l’Italia della metà del secolo scorso, patriarcale e ancorata ai ritmi della coltivazione agricola e dell’allevamento, senza luce e acqua nelle case, con strade mulattiere e scuole elementari raggiunte facendo chilometri a piedi. E l’affacciarsi della prima fase del boom economico, con l’acquisto, anche in alcune case contadine, della prima televisione e della prima macchina.
Ne emerge, nitida, l’Italia della metà del secolo scorso, patriarcale e ancorata ai ritmi della coltivazione agricola e dell’allevamento, senza luce e acqua nelle case, con strade mulattiere e scuole elementari raggiunte facendo chilometri a piedi. E l’affacciarsi della prima fase del boom economico, con l’acquisto, anche in alcune case contadine, della prima televisione e della prima macchina.
Su questo sfondo, saldamente realistico e, insieme,
quasi mitologico, la storia del rapporto madre-figlia, tema ampiamente
esplorato nella letteratura del post-femminismo, è inquadrato da un’angolatura
molto particolare. Non è tanto la storia di Esperia, quanto il
racconto per Esperia. Che, ad appena sessantadue anni, colpita da una forma
di precoce senilità, comincia a non ricordare più, né le cose quotidiane – dove
riporre una pentola, in quale cassetto mettere le maglie – né i fatti della sua
vita e le persone, ormai evanescenti fantasmi, che l’hanno attraversata. La
figlia – professionista affermata, moglie separata e madre di un bambino – le
racconta chi è, grazie ai ricordi di quello che ha co-vissuto lei stessa
dell’esistenza della madre e di ciò che quest’ultima, negli anni precedenti, le
aveva, a sua volta, raccontato.
Le parole della memoria diventano i conti che la figlia
deve fare con sé stessa: «Ho chiamato ogni limite mia madre. Le ho
imputato il mio volo zoppo. Lei è il mio pretesto. E’ causa, e motivo. Mia
madre è un albero. Alla sua ombra mi sono giustificata. Si secca, anche l’ombra
si riduce. Presto sarò allo scoperto.» E sono la medicina che risana nel profondo le
incomprensioni di anni.
Ridandole parole – e, con esse, cardini spazio-temporale e dignità dell’essere – la figlia offre alla madre un vestito con cui affrontare il sofferto disorientamento dei giorni. E’ la ricomposizione di un amore, che non aveva trovato le adeguate modalità per dirsi. Ed è interessante notare che, nella stratificazione della scrittura e nell’uso dei tre pronomi – io, tu, lei, in cui il lei equivale molto spesso al tu – il più usato è la seconda persona: il bisogno assoluto di trovare la relazione che non c’è stata o, meglio, non è stata come si voleva: il “tu” come riconoscimento di un’alterità, ma di un’alterità “in relazione” con l’io, quindi di una vicenda che accomuna in un, mai pronunciato, “noi”.
Ridandole parole – e, con esse, cardini spazio-temporale e dignità dell’essere – la figlia offre alla madre un vestito con cui affrontare il sofferto disorientamento dei giorni. E’ la ricomposizione di un amore, che non aveva trovato le adeguate modalità per dirsi. Ed è interessante notare che, nella stratificazione della scrittura e nell’uso dei tre pronomi – io, tu, lei, in cui il lei equivale molto spesso al tu – il più usato è la seconda persona: il bisogno assoluto di trovare la relazione che non c’è stata o, meglio, non è stata come si voleva: il “tu” come riconoscimento di un’alterità, ma di un’alterità “in relazione” con l’io, quindi di una vicenda che accomuna in un, mai pronunciato, “noi”.
Anche se nessuna parola, per quanto dia
ordine e disciplina al pensiero, può addomesticare il dolore dirompente.
Assistere alla decadenza della mente di chi ci ha generato è tra i più feroci
che la vita può dare.
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