«Sudata.
Adesso Reggio gli appare soprattutto sudata di un sudore acido e maleodorante,
appiccicoso e tossico. E impaurita, nei sorrisi dei ragazzini che fumano
all’angolo della chiesa seduti sulle selle degli scooter. Di quella paura che
conosci bene ma non hai ancora imparato a controllare. Sfatta, la trova sfatta
nelle prime luminarie che annunciano il Natale. Come una donna che invecchia
senza il senso di sé, gonfia e deformata dal lifting. E gli appare arresa,
maledizione: arresa di fronte all’ineluttabilità di una vita che non ha scelto,
ha pensato di controllare, di cui forse ha cercato di approfittare
vigliaccamente. Corrotta nella sua essenza, e tradita, innanzitutto da chi la
abita. Mai, davvero mai, l’aveva vista così depressa e ripiegata. Troppo,
persino per lui che l’ha lasciata e ha imparato ad amarla con cattiveria e
rancore. Lui che in quella città, forse, continua a riconoscersi senza
accettarlo.»
Quando torna a Reggio, sua città natale, Federico Principe è un uomo «sconfitto, (…) si sente così da mesi. (…) Ha finto, mentito, occultato. Ci ha provato con tutte le forze, ma non è riuscito a voltar pagina. Ha serrato la porta, dato tutti i giri della serratura. Inutile. La realtà è lì a ricordargli ogni giorno chi è stato, e chi è. Adesso è esausto, e ha solo un insopprimibile bisogno di verità, luce, pulizia. Se è altro dolore il prezzo da pagare, che sia.»
Alcuni mesi prima, brillante magistrato anti ‘ndrangheta, nel corso di un’intervista televisiva condotta da Mario Meliadò (omaggio all’omonimo giornalista: «Mario Meliadò sarebbe certamente un volto popolare di una tv nazionale se non fosse stato costretto a tornare da Milano a Reggio Calabria per stare accanto alla famiglia. Ne ha sofferto, ma ha trovato una dimensione interessante a Tele Calabria e il suo programma è considerato autorevole, nonostante l’orrenda scenografia blu e arancione che meriterebbe di finire in un inceneritore.») si è candidato alle elezioni come sindaco di Reggio.
Ma, nel corso d’una festa in casa Foti, s’è ritrovato con la bella avvocata, Valentina Vadalà, con cui ha appena avuto un rapporto sessuale, ferita al fianco da un colpo partito, forse e chissà come, dalla sua pistola.
Per soffocare il possibile scandalo, ha lasciato la Calabria ed è passato al tribunale di Roma: «Non è più il rigoroso cacciatore di ‘ndranghetisti né l’uomo nuovo che avrebbe cambiato la città. Non è nemmeno la persona felice che da ragazzo sognava di diventare, né ha costruito relazioni o una famiglia che lo realizzino. Sa chi non è mai stato e chi non è più e (…) aspetta di ricominciare a capire chi è adesso.»
Ha trovato sostegno in una donna, Adele, una barista che sogna di fare l’attrice – «Non cercano amore, però. Solo un rifugio. Si siedono sul divano, tirano un grammo di cocaina. Senza piacere. Serve a resistere. Si stringono in un abbraccio di compassione» – e provato a smorzare le sue angosce nel whisky e nella cocaina eleggendo a «infallibile misuratore di felicità» gli spaghetti alla gricia. Fa grande uso di Oki contro il mal di testa e gli capita di vomitare spesso. La scelta delle scarpe, tra le New Balance verdi o blu e le Munich grigie e nere, sono un dilemma esistenziale che si concede.
Le tante fragilità – in larga parte determinate dal dolore per quanto accaduto a Valentina e dalla scoperta della connivenza del padre col sistema ‘ndranghetista – non gli impediscono di lavorare con passione su alcuni casi giudiziari.
Insieme a due colleghe, la reggina Caterina Trapani e la romana Manuela Fiume, comincia a tirare le fila di un’inchiesta che collega la ‘ndrangheta calabrese, il diffuso malaffare della capitale, i traffici di droga che hanno dimensioni internazionali. Sa che l’inchiesta potrebbe essere distruttiva della sua carriera e segnare la sua vita perché i suoi nemici tireranno fuori gli scheletri del suo armadio.
Trova allora la forza di tornare a Reggio per parlare con un vecchio amico giornalista, con cui, partendo, s’erano spezzati i legami di affetto e di stima. A Ivan, Federico consegna la sua storia, con umiltà e coraggio. A dargliene la forza è il sentimento nei confronti di Bianca Conte, sua vecchia compagna di scuola, un’amicizia che non riconoscendosi come amore era finita tanti anni prima e la speranza di poter riprendere con lei una relazione che lo riporti alla verità del suo essere.
Ha ritmo e vivacità il primo romanzo di Danilo Chirico, ChiaroScuro, appena edito da Bompiani, un thriller politico-criminale ambientato tra Reggio Calabria, Roma e New York, il racconto, ha scritto l’autore, «di una generazione irrisolta e senza pace».
Percorso da alcune domande: Quanto contano, nella vita dei figli, le colpe dei padri? Quanto l’errore passato condiziona il presente e il passato? Si può spezzare la maledizione sociale – «In certi posti te la insegnano da piccolo l’ineluttabilità delle cose, l’impossibilità di cambiarle: ti spiegano che probabilmente non vivi nel migliore dei mondi possibili, ma che in fondo non è così male se ti fai i fatti tuoi» – e vivere con una pienezza anche personale mai conosciuta?
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