Leggo
Un treno nel Sud su un treno che da Reggio Calabria sale verso Roma.
Come in quello di discesa, le conversazioni che mi arrivano, a pezzi, dai posti
intorno sono di insegnanti, sopraattutto donne, ma anche uomini, trasferiti “d’ufficio” al Nord. Un treno non è solo
un modo di muoversi, ma contiene racconti che dicono molto della
contemporaneità. Corrado Alvaro lo sapeva bene.
Questa
è la mia recensione sul suo libro pubblicata su Zoomsud:
«Tutti
i paesi hanno un Sud, voglio dire, il Sud dei problemi sociali, generalmente ad
economia agricola, più povero del resto della nazione. (…) L’Italia, a sua
volta, è il Sud del mondo, vale a dire quella dimensione sentimentale che
significa ancora vita legata alla natura, predominio dell’istinto, antichi
mestieri e atteggiamenti, passato e tradizione, una civiltà particolare dove il
bisogno crea forme progredite di cultura, e dove la novità della tecnica dà la
sua parte alla cultura, o almeno alla tradizione di una cultura. (…) Il Sud
così discusso, dai problemi complicati e fastidiosi, offre uno spettacolo in
cui lo spettatore d’una società che si reputa superiormente evoluta, compie una
specie di “refoulage” psicanalitico. Cioè, tale società rovescia sul Sud i suoi
sotterranei rimorsi, i suoi dubbi sul suo stesso modo di vivere, sulle sue
responsabilità: sedotta dallo spettacolo d’una vita ingegnosa, che respinge da
sé tutto quanto l’uomo civilizzato cova e non riesce a espellere e non ardisce
esprimere.»
Scritti
tra la fine degli anni 40 e l’inizio dei 50 e pubblicati postumi nel 1958 quale
parte conclusiva dell’Itinerario italiano, i racconti di Un treno nel Sud
– recentemente editi da Rubbettino, con una illuminante introduzione di Vito
Teti – costituiscono un vero e proprio nostos. Ovvero il viaggio di
ritorno di Corrado Alvaro in quel Sud visto, nello stesso tempo, come luogo
dell’anima, pieno di rimandi anche mitologici e autobiografici, e problema sociale
fondamentale del paese.
«Ci
trovavamo sul marciapiedi della stazione d’una linea secondaria, in attesa del
treno, cioè dell’elettro treno, come si chiama. C’era qualche studente che
tornava a casa dall’esame sbrigato presto, un prete, giovani professionisti,
avvocati attempati e vecchi notai che andavano alle loro visite settimanali
della clientela di provincia, qualche coppia di sposi, di cui una vestita di
nero, la donna stretta in una guaina che faceva risaltare la pelle d’un bianco
di camelia.»
Il
Sud che Alvaro rivede, e, specialmente la Calabria, vive, in quella fase
storica, un momento particolare in cui il passato mitico e contadino sembra
cedere il passo ad una più variegata modernità: «La Calabria è nel suo momento
di mutamento. In pochi anni sono sorti miracolosamente ponti e strade che
formavano l’aspirazione di secoli, il mondo nuovo pulsa col suo motore nel più
piccolo villaggio. Già qualcuno pensa a un museo di curiosità popolari, che è
l’archeologia dei luoghi. Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della
civiltà risponderanno quelli interiori, la regione sarà una regione totalmente
cambiata.»
La
fiducia che la questione meridionale potesse essere risolta all’interno di uno
slancio di solidarietà e di progresso nazionale non impedisce ad Alvaro di
segnalare alcune problematiche che rendevano più deboli le prospettive di
sviluppo calabrese.
In
particolare, Alvaro indica il lungo retaggio di un potere feudale, cui si sono
aggrappati anche i Borbone; gli alti tassi di analfabetismo; la miope debolezza
della borghesia; i lavori pubblici «sempre veduti come un rimedio alla
disoccupazione stagionale (…) concepiti come palliativo sociale.»; la
scarsissima cura del territorio – «la Calabria dà sempre l’impressione d’una
terra pericolante in continua riparazione»; la presenza della ‘ndrangheta: «Non
è un semplice problema di polizia, né si tratta di mettere sotto accusa e in
istato d’assedio una intera provincia. La norma per un’azione seria, potrebbe
dettarla l’esame di come si è comportata la classe dirigente da cinquant’anni.
Questo non è tutto, ma può essere molto utile.»
Alvaro
attacca l’asfittica cultura dei ceti altolocati, tendente all’astrattezza e
scarsamente indirizzata alla complessiva crescita culturale della società:
«Quasi tutto quello che si legge qui della Calabria, a parte la letteratura
dialettale, è rivolto in genere a magnificare una Calabria che non esiste più,
e cioè le colonie greche, e Sibari, e Locri. La tendenza è al classico. Il
povero bracciante fugge nell’emigrazione, e l’intellettuale fugge nel passato.
La retorica sì, quella è nazionale.»
La
Calabria ha un particolare bisogno di essere parlata: «… il calabrese “vuole
essere parlato”. Bisogna parlargli come a un uomo che ha sentimenti, doveri,
bisogni, affetti: insomma, come a un uomo.» La sua forza è nel suo essere una
terra errante, nomade: «La fuga è, dunque, oggi, il tema della vita calabrese.
Lo è sempre stato in qualche modo, ma oggi si ha l’impressione d’una primitiva
tribù che abbandona una terra inospite. E ciò è tanto più crudele in quanto la
loro terra è bella. Ho sentito dire da molti stranieri che è una delle più
belle d’Italia. Io non lo so perché l’amo. Ma so che si fugge e si rimpiange
con la sua pena; si torna e si vuole fuggire: come con la casa paterna dove il
pane non basta. (…) Fisicamente o fantasticamente, la Calabria è oggi in fuga
da se stessa. Senza dramma, senza rancore, con la forza di un fenomeno della
natura, la Calabria reagisce con tutte le sue risorse ad una condizione
inferiore o servile. Con tutte le sue dure energie, cerca una condizione in cui
l’uomo sia padrone di sé e del suo destino.»
Le
scelte del momento saranno decisive per il futuro: «Il popolo calabrese ha
virtù generose, ridotte ormai allo stretto mondo familiare, e questa è la leva
delle sue conquiste. Ha un senso della giustizia e di rispetto della persona
umana e di sé, estrema reazione a quanto di umiliante ha dovuto subire. (…) Può
finire in forme di disgregazione sociale, dopo aver tenuto duro per oltre un
secolo nelle sue virtù fondamentali, irrimediabilmente. Questo popolo e la sua
terra hanno, per tutti quelli che lo hanno veduto da vicino, un fascino,
portano l’impronta di una vocazione a tutto quanto nel mondo è più degno di
essere vissuto; il paesaggio ha la classicità d’un protagonista di tragedia
antica, ha l’impronta delle traversie della terra, un monumento dei secoli
tempestosi che pure hanno lasciato angoli di incomparabile gentilezza. Ai suoi
uomini è tempo di offrire un compito e una speranza perché diano i risultati
generosi che conosce bene chi li ha veduti in guerra e ai lavori sotto tutti i
cieli.»
Lo
sguardo lucido sulla realtà, un’interpretazione dei fatti mai banale, la prosa
da giornalismo alto percorsa da una sensibilità letteraria sobria e raffinata
danno a queste pagine di Alvaro un respiro che va al di là del documento
storico. Ci sono, ovviamente, rilievi ormai datati. Ma ancor di più si trovano
notazioni e spunti che potrebbero anche oggi animare il dibattito sul Sud (se
qualcuno volesse farsene carico).
Su
Zoomsud è stata anche pubblicata la mia recensione al libro di Giuy
Staropoli Calafati, La terra del ritorno: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/97603-le-recensioni-di-maria-franco-la-terra-del-ritorno-di-giusy-staropoli-calafati
e a quello di Giuseppe Mario Tripodi, Ritratti in piedi: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/97582-l-ultimo-libro-di-giuseppe-tripodi-ritratti-in-piedi-del-novecento-calabrese-tra-anticipazione-e-recensione
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