L’anello
della nonna che pensavi perso e ritrovi all’improvviso. La malattia sospettata
gravissima che si rivela banale. L’esame che va male fino a metà e poi diventa
brillante. Piccole pasque: passaggi simbolici dalla morte alla vita dei
singoli. E, in quella della collettività, è pasqua ogni venticinque aprile che
liberi dai nazisti di turno.
Ma
la Pasqua non è dolcezza del cielo primaverile, col vento profumato di zagare
che carezza i prati o odore del grano impregnato di fior d’arancia. Non
dimentica la croce, la corona di spine sulla testa, i chiodi sulle mani e sui
piedi, il costato aperto, il sepolcro. Ha dentro di sé tutto il dolore del
mondo, lo squarcio della violenza, l’urlo dell’insopportabile. Sa che la
sofferenza resta sempre lì, atroce e inevitabile. Ma le impedisce di ergersi a
destino finale degli uomini, la contiene in un orizzonte in cui non la morte,
bensì la vita è eterna.
La
Resurrezione non è un sinonimo del pur apprezzabile ottimismo della volontà, che
fa andare avanti nonostante ogni pessimismo della ragione, né dell’ammirevole resilienza
che fa affrontare con indomabile sorriso le prove più dure. È un atto di fede,
che implica di scommettere la propria vita sulla parola del Vangelo.
Non
so quanti cristiani credono davvero che Cristo sia risorto e neppure quanti
credono che loro stessi risorgeranno. Né so se sono migliori di quelli di fede
più tiepida o piena di dubbi. Ma, penso, hanno una luce negli occhi che sa di Pasqua.
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