“…la violenza di
cui sono veramente stanco … di battaglie ne ho abbastanza…Sono ancora in cerca
della pace…”
Quasi
un senso di vertigine.
Mi
capita ogni volta che un ragazzo – soprattutto quando evita di farsi troppo
vedere dai compagni – mi porge qualche foglietto di carta un po’ raffazzonato
(magari uno da quadernone e due da quaderno, due righe e due a quadretti) su
cui, dice, ho scritto qualcosa che mi chiede di leggere.
Non,
naturalmente, un compito non concluso in classe e poi finito rubando qualche
ora alla tv o alla conversazione con i compagni: in questo caso, ci tiene a farsi
vedere da tutti. Ma qualcosa, di autentico, di sé.
Qualcosa
che, magari, è già difficile pensare e dire a se stesso. Ma ancora più
difficile è provare a scriverlo alla tua insegnante (che, per età, possa essere
ampiamente nonna rende la cosa più facile o più difficile?).
E
che vuol dire accettare che la pagina scritta possa diventare una forma di
comunicazione silenziosa. Qualcosa di molto diverso dal mutismo o dalla chiacchiera.
Un dire che non vuole nascondere o falsificare. Piuttosto tende alla verità:
nei limiti in cui la si coglie e la si riesce ad esprimere. Con tutte le
lacerazioni, le rabbie, le ferite aperte di una giovinezza prigioniera ancora
prima di essere imprigionata.
Come
se chi scrive si fermasse davanti ad uno specchio, si guardasse con attenzione,
si scrutasse occhi, capelli, fronte, labbra, prendesse coscienza di essere
proprio lui: Gennaro, Marco o Giuseppe: con la propria fragilità e la propria
forza, le proprie chiarezze e tutto il turbine caotico dei propri pensieri,
sentimenti, desideri, attese.
E
dall’adulto-specchio si aspettasse niente di più che un cenno, una frase, un
sorriso che lo rafforzi o lo sconfermi in questo suo, inquieto e vitale,
coraggioso articolare un alfabeto nuovo. Di una lingua non più, in un modo o in un altro, imposta
dall’esterno, ma quella libera in cui ci si può identificare e trovare
pace.
Quello che hai raccontato, Maria, è davvero molto bello e conferma che il tuo durissimo lavoro non è vano. Anzi.
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