«Mio padre parlava e
lavorava. Lavorava come un treno in corsa. Era sempre in moto, anche mentre
mangiava il suo pezzo di pane con olive o fichi secchi o frutta. Mangiava,
parlava e faceva sempre qualcosa. Tagliava un rametto, aggiustava una vite,
toglieva una foglia, portava erba ai conigli, preparava il beverone per i
porci. Era bravo a potare, a innestare, a seminare; a mietere non c’era un
altro che l’eguagliasse. Allevava la vigna come gli uomini di lassù che da un
filare di viti ricavano mosto che noi non ne ricaviamo, a causa della vecchia
maniera, neanche da mille viti. E mille viti richiedono più del doppio terreno
e più della doppia della doppia fatica. Fra l’altro lassù ormai usano la
macchina in tutto. Bisogna ponderare e, dopo aver dissodato la terra, fare uno
sforzo e comprare magari un piccolo trattore. Comprare una motozappa per la
vigna e il giardino, così non si è schiavi di quei pochi poveracci che sono
rimasti e al tempo della vigna non sanno dove andare per primo. Bisognava che
io, che ero giovane, frequentassi una scuola di agraria, visto che non avevo
avuto intenzione di compiere studi seri, dopo le medie. Bisognava svecchiare il
cervello e, di conseguenza, i metodi di lavoro e di produzione. Altrimenti si
rimarrà sempre indietro, mentre il resto del mondo progredisce. Egli si rende
conto di queste cose tramite la rivista di agricoltura che riceve, che si fa
mandare. Non è possibile continuare a vivere a occhi chiusi…»
A quaranta anni dalla sua
prima edizione (Mondadori, aprile 1977; anno in cui ricevette il premio
Campiello; attualmente, acquistabile in versione cartacea su internet), Il
selvaggio di Santa Venere di Saverio Strati conferma, per stile e
tematiche, grande potenza narrativa e la perenne attualità delle migliori opere
letterarie.
Iscrivibile al miglior
neorealismo, il fraseggio asciutto di chi ha frequentato il lavoro prima dei
libri, una lingua fortemente espressiva intessuta naturalmente, senza
ideologismi e senza stacchi, di termini dialettali, un uso perfetto del
discorso indiretto, la voce narrante, quella di Dominic, che si fa voce di Leo,
la dislocazione dei fatti su più piani temporali – Il selvaggio di Santa
Venere è tra i libri calabresi da leggere. O da rileggere.
La vicenda, centrata su
Leo Arcàdi, su suo padre e su Dominic, suo figlio, è, prima di tutto, un
romanzo sulla paternità, sul diventare uomini (persone di sesso maschile) e
sulla trasmissione di valori, esperienze, conoscenze, da una generazione
all’altra. Il racconto di un vincolo affettivo complesso, fatto di reiterate
parole e di pudichi silenzi, di ordini e di suppliche silenziose, di rabbie e
di tenerezze. Un legame che raramente è stato raccontato, nella nostra
letteratura, con tanta semplicità e tanta forza.
Nonostante gli sforzi del
padre, Leo Arcàdi lascia ben presto la scuola, dove aveva trovato un maestro
incompetente e compagni bulli. Fa il pastore – e il padre lo relega nella
solitudine di Santa Venere a controllare il gregge – e conosce Santo, che lo introduce
nel mondo, lontanissimo da quello della sua famiglia, della maggiore e
della minore, dei saggi mastri, del mammasantissima:
«Perché s’era lasciato affibbiare e incantare dalla ‘ndrina? Gli chiedevo. Ma,
così! Per la solitudine, per l’ignoranza e anche per le circostanze del suo
destino.»
Ricevuto il battesimo
del sangue e dell’onore a Polsi, Leo si ritrova, senza volerlo né saperlo,
complice di un omicidio. La partenza per il militare e la partecipazione alla
seconda guerra mondiale gli aprono nuovi orizzonti. Si stacca dalla ‘ndrangheta
e, a prezzo del silenzio sull’omicidio mai dimenticato, torna nel suo paese e
vive stimato da tutti e dedito con grande passione a gelsomini e bergamotti,
vigneti e allevamento di maiali.
Il cardine su cui ruota
il passaggio da una vita selvaggia e quasi animalesca ad
un’esistenza umana è la rinnovata passione verso la conoscenza. Che
ritrova poco prima della partenza come soldato: «Volle provare se ricordava
l’alfabeto. Se lo ripeté dalla a alla zeta in un fiato; e ricordò in un lampo,
i primi giorni di scuola quando facevano a gara a chi l’avrebbe ripetuto più
svelto e senza sbagli; e lui era tra i tre migliori. Lo volle anche scrivere,
l’alfabeto. Lo scrisse a lettere grandi, senza saltarne una e nell’ordine giusto.
Si sentiva il cuore e il cervello aperti. Si ripromise che da oggi in avanti
avrebbe letto sul vecchio libro di scuola, se i topi non se l’erano mangiato.
Da oggi in avanti avrebbe anche copiato. Anche sulla polvere e sulle pietre da
oggi in poi avrebbe scritto per esercitarsi.» E si rafforza nell’esercito,
quando ha la fortuna di fare l’attendente ad un ufficiale colto e cortese: «E
tante altre cose gli insegnò il signor tenente: come quel potabile, evacuare,
interferire, smistare, rastrellare che alcuni pensavano, e anch’io come loro,
si trattasse di lavorare col rastrello. Siccome lo ascoltava con interesse e le
cose le imparava, il signor tenente pensò di dargli qualche lezione. (…) Gli
insegnò l’avverbio, il nome, il pronome, l’aggettivo; l’oggetto e il soggetto.
Ogni cosa nuova, ogni parola nuova, che qua manco esiste, diventava come un
sole che gli illuminava la vita, l’avvenire, l’intelligenza. Beati coloro che
hanno avuto la sorte di studiare, di diventare veramente uomini…»
Le pagine riguardanti l’inserimento di Leo nella ‘ndrangheta (una ‘ndrangheta d’altri tempi, lontana dalla rete di interessi economici attuali) illuminano su un motivo fondante di una simile adesione (il tentativo di coprire, diventando omo valente, un profondo senso d’inferiorità sociale personale) e costituiscono un documento prezioso anche in sede sociologico-storiografica (in particolare, sui riti di iniziazione). Ma la domanda che percorre tutto il libro, la scelta che si impone ai suoi protagonisti riguarda il restare o l’andare via dalla Calabria: non l’emigrazione determinata dalla povertà, ma quella scelta per migliorare le proprie condizioni, umane prima ancora che economiche.
Le pagine riguardanti l’inserimento di Leo nella ‘ndrangheta (una ‘ndrangheta d’altri tempi, lontana dalla rete di interessi economici attuali) illuminano su un motivo fondante di una simile adesione (il tentativo di coprire, diventando omo valente, un profondo senso d’inferiorità sociale personale) e costituiscono un documento prezioso anche in sede sociologico-storiografica (in particolare, sui riti di iniziazione). Ma la domanda che percorre tutto il libro, la scelta che si impone ai suoi protagonisti riguarda il restare o l’andare via dalla Calabria: non l’emigrazione determinata dalla povertà, ma quella scelta per migliorare le proprie condizioni, umane prima ancora che economiche.
Leo, fortemente tentato
dall’idea di vivere al Nord, sceglie di restare in Calabria, ma con lo sguardo
rivolto al mondo esterno da dove giungono novità e vita. Vuole che il figlio
faccia esperienze fuori dal suo paese, ma che poi torni in Calabria a mettere a
frutto quanto ha appreso. Dominic sceglie, al contrario, di trasferirsi
definitivamente: «Io non avevo in mente di rimanere un cacciavermi in eterno,
dato che altre alternative non esistevano: o zappare o studiare. Perciò
meditavo di smammare e me ne fregavo dei progetti di mio padre. No, capivo da
me, per istinto, a diciott’anni, che tutto il sistema va cambiato dalla a. Mi
rendevo anche conto che per cambiare occorrono decenni di attività operosa e
diligente e di buona volontà. Che manca. Giacché si tratta di operare in modo
che la mentalità dell’uomo muti, migliori, in modo che l’uomo sia in grado di
cambiare l’ambiente. Una catena. Dello stesso parere erano altri miei amici con
i quali nei giorni di festa discorrevamo. Discorrevamo della necessità
d’emigrare o di rimanere. Secondo il partito era opportuno rimanere. Già, ma il
lavoro? ci chiedevamo. Zappare non piace più a nessuno. Proprio a nessuno,
all’infuori di mio padre che, come suo padre, ancora è lì, a curare il suo
giardino, la sua vigna, il suo oliveto, i bergamotti e i gelsomini. Ma dopo la
sua morte? Be’, con i compagni si concludeva che era un errore partire: avremmo
arricchito altre regioni, avremmo votato per altri politici che poi al
Parlamento avrebbero badato ai problemi della loro comunità, mentre il Sud
sarebbe rimasto indifeso e sempre più emarginato. Colonia. Colonia d’Italia,
colonia d’Europa. Al diavolo il Sud e tutti quelli del Sud che aspettano anno
dopo anno la manna, invece di rivoltarsi, invece di appiccare fuoco ai
politicanti ottusi e disastrosi più del terremoto, io mi dissi, e capivo che il
male sta in noi stessi e piantai nel più bello mio padre e partii. (…) Sono un
uomo libero, in un ambiente avanzato, che esprime le proprie idee, in piena
franchezza e onestà… Al Sud non è lo stesso neanche per quelli del mio partito.
C’è sempre una ragione d’impiego, di occupazione, di protezione al fondo delle
intenzioni.»
Errore politico-sociale
l’emigrazione, ma unica salvezza personale, se si vuole avere una vita di
relazioni significative, un lavoro libero, la possibilità di valorizzare il
proprio cervello e le proprie qualità, ma sapendo che, in un circolo vizioso,
questa libertà personale, la piccola dose di felicità individuale, produrrà,
nella terra d’origine, nuovo isolamento e nuova chiusura: «(Mio
padre ndr) sta preparando con cura la tagliola per farmici rimanere intrappolato.
Non si stanca infatti di ripetermi ogni settimana al telefono: finché sarò
attivo io, va bene; ma poi? ...»
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