Ieri
pomeriggio, ho pulito il pavimento, lavorato al prossimo libro di Nisida,
cucinato, letto un testo da recensire, fatto la lavatrice, risposto alle mail,
pregato, ecc. Stamattina, sono tornata a scuola, ho letto, spiegato, corretto,
ecc.
Ma
da quando, tornando dal lavoro, in macchina la radio mi ha cominciato a
raccontare delle nuove scosse in un terra che già martoriata dal terremoto,
dalla neve, dalla mancanza di elettricità – e, oggi, ci ha aggiunto la vicenda
dell’hotel sepolto sotto la slavina – ho la sensazione, netta, di stare a
lutto.
Un
lutto che cerco di incanalare nel rispetto dei miei doveri, ma che avrebbe forse bisogno di esprimersi in forme
arcaiche: estreme e collettive: coprirsi il capo di cenere, stracciarsi le
vesti, negarsi il cibo e, soprattutto, il riscaldamento.
Per senso di solidarietà. Almeno metaforicamente.
Per senso di solidarietà. Almeno metaforicamente.
Quasi
un esercizio di pentimento, meglio di conversione collettiva: riconoscere la
nostra estrema fragilità, dare massima attenzione e cura alla natura e alle
persone, ritrovare la forza del cammino dopo ogni tragedia.
Sapere quanto si è piccoli e lavorare sodo perché ci sia meno dolore.
Sapere quanto si è piccoli e lavorare sodo perché ci sia meno dolore.
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