sabato 7 gennaio 2017

Il pastore d'Islanda di Gunnar Gunnarsson






«Quando una festa si avvicina, gli uomini si preparano a celebrarla, ognuno a modo suo. Ce ne sono molti e anche Benedikt aveva il proprio, che consisteva in questo: quando iniziava il digiuno natalizio, o meglio, se il tempo lo permetteva, la prima domenica d’Avvento, si metteva in viaggio. Riempiva una bisaccia di provviste, calzettoni di ricambio, varie paia di scarpe di cuoio nuove e un fornelletto da campo; prendeva con sé una latta di petrolio e una bottiglietta d’alcol e se ne andava tra le montagne, che in quel periodo dell’anno erano popolate solo dagli uccelli predatori più resistenti, dalle volpi e da qualche pecora sperduta. Proprio di queste Benedikt andava in cerca, bestie sfuggite ai tre raduni regolari d’autunno. Dovevano morire di freddo e di fame solo perché nessuno aveva la voglia o il coraggio di cercarle e riportarle a casa? Erano pur sempre esseri viventi. E Benedidikt aveva una specie di responsabilità nei loro riguardi. Il suo scopo era semplice: trovarle e ricondurle a casa sane e salve prima che la festa portasse la sua benedizione sulla terra, e pace e gioa nel cuore degli uomini di buona volontà.»

Il pastore d’Islanda di Gunnar Gunnarsson, recentemente pubblicato in Italia da Iperborea, racconta una storia molto semplice: il ventisettesimo viaggio di Benedikt, un anziano di cinquantaquattro anni, mezzo garzone di fattoria e mezzo contadino, alla ricerca delle pecore disperse: «In questo suo pellegrinaggio d’Avvento Benedikt era sempre solo. Davvero solo? Meglio dire senza compagnia umana. Perché era ogni volta scortato dal suo cane e spesso anche dal suo montone guida. A quel tempo il cane era Leò ed era, come diceva Benedikt, “un vero papa”. Il montone, per via della sua tenacia, portava il nome di Roccia.»

Il viaggio di questa «Santa Trinità» inizia, come tutti gli altri anni, la prima domenica d’Avvento: «… c’era in quella domenica nel distretto di montagna una solennità che stringeva il cuore. Una festosità grande e immacolata esalava nel quieto fumo domenicale dei casali bassi, rari e quasi sepolti sotto la neve. Un silenzio inesplicabile e promettente – l’Avvento. L’Avvento! Sì… Benedikt pronunciò con cautela quella parola grande, mite, così esotica e al tempo stesso familiare. Forse, per Benedikt, la più familiare di tutte. Certo, non sapeva di preciso che cosa significasse, ma c’era in ogni caso l’attesa, la speranza, la preparazione – questo lo capiva. Negli anni quella parola era arrivata a racchiudere tutta la sua vita. Perché cos’era la sua vita, la vita degli uomini sulla terra, se non un servizio imperfetto che tuttavia è sostenuto dall’attesa, dalla speranza, dalla preparazione? »

Ma, a causa di condizioni climatiche particolarmente avverse, il viaggio si prolunga, insolitamente, fino al giorno dopo Natale: «E così finì il cammino dell’Avvento. Il compito era stato portato a termine e Benedikt era tornato tra gli uomini – ancora per un po’.»

Una trama essenziale per un libro gioiello. 

Avventura; rapporto uomo-natura (l’amicizia con gli animali, la durezza dello scontro con la bufera); l’essere umano tra solitudine e società; il senso di responsabilità nei confronti della vita: c’è tutto, in questo racconto, bellissimo in sé e, potenzialmente, carico di metafore che non lo appesantiscono, anzi lo illuminano ancora di più. Dalla metafora della vita come cammino, difficile, verso una meta di luce alla metafora del Cristo, buon pastore che dà la vita per salvare le pecore disperse. 

(Avevo letto che, in Islanda, questo libro di Gunnarson viene considerato il vero Canto di Natale e avevo pensato di leggerlo nei giorni precedenti la Vigilia. L’ho letto, invece, tra il 6 e il 7 gennaio, con l’Italia meridionale gelata, innevata, ghiacciata, con temperature e atmosfere più nordiche che mediterranee. Mi è sembrato, in effetti, l’unico libro che possa competere con quello di Dickens come Canto di Natale e che, Natale o meno, è un libro tutto da godere: un ristoro per l’anima).

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