«Quando sono diventata
così diversa dall’altra gente? Forse accadde quando seguii Sylvie sul ponte, e
il lago ci reclamava, oppure quando mia madre mi lasciò ad aspettarla, e creò
in me l’abitudine all’attesa e alla speranza che rende ogni attimo presente
particolarmente significativo per ciò che non contiene. Oppure successe al mio
concepimento. Del mio concepimento so soltanto quel che voi sapete del vostro. Si
verificò al buio e senza il mio consenso. Io (e questa esilissima parola è fin
troppo consistente per quella cosa rarefatta che ero allora) camminavo in un
oblio eterno e irraggiungibile, nello stato d’animo di chi annusi fiori che
sbocciano di notte, ed ecco che a un tratto i miei violentatori lasciarono in
me tracce, maschio e femmina, e con il passare dei mesi mi arrotondai, divenni
pesante, finché non si poté più coprire lo scandalo e l’oblio mi espulse. Per
una qualche lugubre alchimia ciò che era stato puro non essere diviene morte
quando si mescola alla vita. E così loro sigillano la porta per impedire il
nostro ritorno. Poi c’è il problema dell’abbandono di mia madre. Ancora una
volta, questa è un’esperienza comune. Loro camminano davanti a noi, e camminano
troppo in fretta, e ci dimenticano, perse come sono nei loro pensieri, e prima
o poi scompaiono. L’unico mistero è che noi ci aspettiamo che accada
diversamente.»
Pubblicato solo
recentemente in Italia da Einaudi, Le
cure domestiche è il primo libro di Marilynne Robinson, autrice di una
trilogia – La casa, Gilead, Lila –,
che costituisce un piacere grande per tutti i lettori che amano le scritture
belle e ricche di significati, tra l’altro una delle pochissime scritture
attuali capaci anche di affrontare il discorso su Dio.
Inserito dal Guardian tra i 100 libri di tutti i
tempi da leggere e dal Time Magazine tra
i cento migliori dall’anno di fondazione della rivista, Le cure domestiche è un romanzo emozionante, capace come pochi di
trattare di famiglia, solitudine, diversità: «La solitudine è una scoperta
assoluta. Quando uno guarda dall’interno una finestra illuminata, o guarda il
lago dall’alto, vede la propria immagine in una stanza illuminata, la propria
immagine tra gli alberi e il cielo – l’inganno è evidente, ma tuttavia
lusinghiero. Quando invece uno guarda la luce dall’oscurità, vede in pieno la
differenza tra questo e quello. Forse tutta la gente che non ha un riparo ha il
cuore pieno d’ira, e vorrebbe tanto rompere un tetto, con assi e travi, e
spaccare le finestre e allagare il pavimento, attorcigliare le tende e sfondare
il divano.»
A narrare la vicenda è
Ruth che, con la sorella Lucille, viene abbandonata dalla madre, che sta per
suicidarsi, davanti alla casa di una nonna che non conosce, in un paese
sperduto del Midwest, Fingerbone, dove il nonno era sprofondato nel lago con
tutto il treno che conduceva: «Tempo, aria e luce portarono ondate e ondate di
trauma, finché tutto il trauma non si esaurì, e tempo e spazio e luce
ridivennero immobili e nulla parve più tremare, e nulla parve più piegarsi. Il
disastro era svanito nel nulla, come il treno stesso, e se la calma che lo
seguì non fu più grande della calma che l’aveva preceduto, l’impressione fu
comunque quella. E la normalità si ricompose senza alcuna cicatrice come
un’immagine dell’acqua.»
Accudite prima dalla
nonna, poi, dopo la sua morte, da due signorine sue parenti, le due sorelle
passano infine alle cure della sorella minore della loro madre, Sylvie,
temperamento nomade e vagabondo, dai modi stravaganti e dalle reazioni spesso
inquietanti, del tutto inadatta al ruolo di “madre supplente”.
«Sylvie parlava
moltissimo di cure domestiche. Mise a mollo per settimane tutti gli
strofinacci, in una vasca piena d’acqua e candeggiante. Svuotò le credenze e le
lasciò aperte a prendere aria, e una volta lavò metà del soffitto di cucina e
una porta. Sylvie credeva nei solventi forti e soprattutto nell'aria. Era per
amore dell’aria che apriva porte e finestre, benché fosse probabilmente per
dimenticanza che poi le lasciava aperte. Fu per amore dell’aria che in una
giornata precocemente splendida trascinò con fatica il divano letto color
prugna di mia nonna nel giardino davanti a casa, dove lo lasciò finché non
sbiadì in un rosa pallido.»
Prima fortemente unite, –
«Avere una sorella o un’amica è come sedere di sera in una casa illuminata.
Quelli di fuori se vogliono possono guardarti, ma tu non hai nessun bisogno di
vederli. (…) Chiunque abbia un solido legame umano si compiace di sé in questo
modo, ed è proprio questo compiacimento che le persone solitarie agognano e
ammirano, oltre al benessere e alla sicurezza.» – Lucille e Ruth fanno,
crescendo, scelte diverse.
La prima scappa di casa e
si rifugia da una vecchia signora per vivere una vita normale, Ruth si lega sempre più a Sylvie e, insieme, si danno al
vagabondaggio, senza mai dare notizie di sé a Lucille: «Noi non siamo a Boston.
Per quanto Lucille possa cercarci non ci troverà mai lì, né troverà alcuna
traccia o segno della nostra presenza. Non ci fermiamo affatto a Boston, nemmeno
ad ammirare la vetrina di un negozio, e i perimetri del nostro vagare non la
sfiorano. Nessuno, osservando questa donna che traccia con l’indice le sue
iniziali sul vetro appannato del bicchiere d’acqua, o infila nella borsa
pacchetti trasparenti di cracker salati per i gabbiani può sapere quanto i suoi
pensieri siano affollati dalla nostra assenza, né può sapere che lei non
guarda, non ascolta, non aspetta, non spera, e mai altri che me e Sylvie.»
Un libro
intenso, lieve e forte, pervaso da una malinconia vibrante e luminosa, da gustare con calma: un puntino che fa luce, anche nel
buio intorno.
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