«“Vieni, il momento è arrivato.” Mi aiutò
a imbracciare il fucile, mi spiegò come avrei dovuto inclinarlo senza farlo
cadere e come sistemarlo né troppo vicino né troppo lontano dalla clavicola. Mi
chiese se avevo capito e io feci rimbalzare il mento in segno d’intesa. Zio Ben
indicò il grilletto, mi domandò se ero pronta e se ero convinta di quel che
facevo. Quindi lo rassicurai, cercando d’allinearmi su una traiettoria e
insieme di non agitarmi. Ero molto serena, anche se non lo sapevo. Mi pose poi
una mano sul petto. “Ne ero certo,” affermò seccamente, “hai proprio il cuore
di un lupo, come il mio. Ora spara.”»
In una montagna senza nome, una ragazza si
esercita a sparare con lo zio, “silenziosamente vivace” eremita e cacciatore,
assiduo lettore e narratore di storie.
La ragazza, serrata in un dolore che «non
è semplicemente dolore. È qualcos’altro, è una crepa talmente profonda da
poterci nascondere un bambino. Perfino io riesco a nascondermi al suo interno,
a volte.”», ha un obiettivo preciso.
«“Devo uccidere un uomo,” dissi. Zio Ben
non ribatté nulla. “Voglio uccidere un uomo... E ho bisogno... di quel fucile.
Per questo ti ho chiesto di portarmi qui oggi, avevo bisogno di esercitarmi e
tu... tu eri l’unico al quale potevo chiederlo.” (…) “Sai che vuol dire porre
fine a un’esistenza?” “No, zio Ben.” “Sai che potrebbe essere inutile?” “Io so
solo che devo farlo.” “Ci sono cose peggiori che uccidere una persona.
Lasciarla in vita e rifiutarsi di amarla può essere ancora più pauroso.”
Parlava con voce scorporata, distante. “Da quanto rifletti su tutto questo?” Mi
accorsi che aveva finito la sigaretta. Ne accese un’altra. “Da tanto.”
“Quanto?” “Un paio d’anni.” “Allora è troppo tardi.” Il fumo mi si spalmava
addosso. “Che significa?” Zio Ben finse di non ascoltare. “Che significa?”
“Significa che è troppo tardi e io non posso più fermarti. L’hai tenuto troppo
dentro di te, gli hai permesso di crescere e stabilizzarsi, abituarsi a te, e
tu a lui. Nulla potrà fermarti adesso. Potrei negarti la mia assistenza ma so
che raggiungeresti comunque il tuo obiettivo, e lo so perché io e te siamo
uguali.” (…) “Ti darò il fucile. Ti darò un solo proiettile.” Il tono adesso
era disteso. “In questo modo,” aggiunse zio Ben, “ogni tua azione avrà meno
avventatezza e più parsimonia, e prima di essere crudele sarai saggia. Il
risparmio è la miglior forma di precisione.”»
Vittima, da piccola, di un medico
pedofilo, la ragazza si traferisce in una città, anch’essa senza nome, dove,
con altri ragazzi e ragazze che avevano avuto la sua stessa sorte (favorita
dalla cecità, non sempre innocente, delle rispettive madri), si prepara a
colpire mortalmente il dottor Spina: «Il fucile è qui con me, lo sto guardando.
– scrive allo zio – Un meraviglioso insetto privo di vita, una scheggia di
meteorite piombata sul mio letto. Ci osserviamo senza far rumore, ci scambiamo
promesse. Non provo né protezione né paura ad averlo accanto, solo uno strano
senso di condivisione. È come se parlasse la mia stessa lingua. Mi rappacifica,
mi colloca in luoghi non ancora raggiunti dal delirio, mi fa sentire libera
dalla catastrofe. Sono felice che tu non mi abbia fermato quel giorno, sapevo
che non l’avresti fatto. Ti conosco bene. Anch’io sono un sognatore, anch’io
sono un figlio del dolore. Ho bisogno di fare quello che sto facendo, sebbene
non si tratti di una vendetta, non ci credo nelle vendette. Voglio solo essere
consolata in uno dei linguaggi della mia anima, e la mia anima pretende che io
faccia questa ricerca, che parli in questo modo. Non so altro. Grazie per aver
compreso, per avermi considerata all’altezza dello sconforto e del turbamento,
di tutto l’orrore che ho provato in questi anni.»
Accompagnando all’Università una delle
altre vittime, la ragazza incontra il prof Bianco che, come già lo zio, le
indica la strada della scrittura: «“Secondo me dovresti scrivere un libro.”
“Cosa?” Attendevamo sui gradini dell’università, invasi da cicche e mulinelli
di cartacce. “Mai scritto nulla finora?” “Altroché se ho scritto.” “Vedi?” “Ma
non riesco a trovare la formula giusta.” “Vedi che allora ho ragione?” “Ragione
su cosa?” “Sul fatto che dovresti scrivere un libro.” “Perché?” “Perché hai lo
sguardo giusto.” “Non so. Ti ho visto e ho pensato che eri sopravvissuta a due
o tre apocalissi. Mi hai attratto subito perché ho capito che non avrei potuto
insegnarti nulla, nel senso che non avrei potuto influenzarti perché possedevi
un’influenza, portavi già un fuoco. Potevo indirizzarti su una strada ma non
condurti. Scrivi un libro, ti dico.”»
La ragazza non è certa di potercela fare:
«“Come farò a sapere se funzionerà o no?” “Quando avrà rotto tutto ciò che
poteva rompere dentro di te. Quando gli permetterai di abbandonarti, ma dopo
averti cambiata. Racconta una storia solo se questa riesce a essere un
miracolo, una purificazione, un dono. Non è obbligatorio che rivolti il mondo,
ma è necessario che lavori nel tuo cuore con tutta la forza del mondo.” (…)
“Non è il dolore che si allontana, ma la speranza che si avvicina. Funziona
così.” (…) “Cosa siamo allora?” “Scrittori.” “Sì... ma come siamo?” “L’hai
detto tu stessa.” “Quando?” “Siamo cacciatori, hai detto poco fa. Siamo
feriti.” “Ci contraddistinguono le ferite, allora? Intendevi questo?” Mi guardò
un’ultima volta e prese ad allontanarsi. Era sconsolato e attonito, quasi
incosciente. “Devi riuscire a passare attraverso la tua ferita superandola.”
“Bianco...” “Come un vero guaritore.” “Che significa guarire?” “Guarire
significa accettare.” (…) “Alice, bada alla semplice storia! Riponila piano
piano dove l’infanzia dei sogni s’infiltra, dentro il mistico arcano della
memoria: è il fiore appassito di un paese lontano.” Bianco spiegò le mani in un
gesto elegante, un ghirigoro ampolloso ma in realtà molto bello. “Devi solo andare
fino in fondo all’infanzia, coi tuoi sogni e con le tue parole.” “Non so se ce
la farò.” “Quel paese lontano non è che la verità, e dovrai arrivarci anche
tu.”»
Lo zio, per lettera, commenta il confronto
tra la nipote e il professore: «Hai un fucile, hai un libro che potresti
scrivere, hai una ricerca, hai te stessa. Devi soltanto scegliere, e per
scegliere devi sapere ascoltare. Anche se il tuo, il nostro, è un ascolto
particolare.»
Otto anni dopo il sorprendente esordio con La casa, e alcuni testi di carattere più saggistico, la ventottenne Angela Bubba pubblica il suo secondo romanzo, Preghiera d’acciaio, Bompiani editore, in libreria dal 13 settembre.
Otto anni dopo il sorprendente esordio con La casa, e alcuni testi di carattere più saggistico, la ventottenne Angela Bubba pubblica il suo secondo romanzo, Preghiera d’acciaio, Bompiani editore, in libreria dal 13 settembre.
Tappa
importante nella sua crescita artistica, Preghiera d’acciaio – libro
così ricco di dialoghi da poter essere definito un vero e proprio romanzo
teatrale –risente molto dell’amatissima Elsa Morante (cui la Bubba ha
dedicato un importante saggio, Elsa Morante, madre e fanciullo).
La sua lezione torna nelle pagine del nuovo romanzo di Angela Bubba in particolare nella limpidezza dello stile, nell’originalità della costruzione e nella straordinaria ricchezza lessicale. Nei fitti dialoghi – parole che talora sanno d’ossimori impietosi, quasi bestemmie sacre, – si rivelano e si nascondono personaggi complessi, ognuno dei quali è come retto da un filo spinato che, nel tenerlo in piedi, lo ferisce costantemente: una sorta di sogno doloroso, di preghiera freddamente struggente, di pacata ossessione, che considera la speranza «la cosa più tremenda che possa esistere.»
La sua lezione torna nelle pagine del nuovo romanzo di Angela Bubba in particolare nella limpidezza dello stile, nell’originalità della costruzione e nella straordinaria ricchezza lessicale. Nei fitti dialoghi – parole che talora sanno d’ossimori impietosi, quasi bestemmie sacre, – si rivelano e si nascondono personaggi complessi, ognuno dei quali è come retto da un filo spinato che, nel tenerlo in piedi, lo ferisce costantemente: una sorta di sogno doloroso, di preghiera freddamente struggente, di pacata ossessione, che considera la speranza «la cosa più tremenda che possa esistere.»
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