La pigiatrice
d’uva affonda, sensuale, i piedi nei
grappoli e, offrendo il mosto al figlio del padrone, suscita la gelosia
dell’uomo che le è accanto. Un emigrante, di ritorno dall’America, trova su un
taxi una bella pietra rosata e non capirà mai che si tratta di un prezioso Rubino.
Crisolia si è fatta Zingara, ma non ha mai imparato a rubare e neppure a
«tirare bene la sorte.» Coronata non vuole andare alla processione ma, costretta dai
suoi e rapita da un uomo, sceglie quest’ultimo, abbandonando la famiglia.
Teresita muore per rispettare, anche il giorno dopo aver partorito,
l’imposizione paterna di andarlo a riverire ogni mattina. Su invito della
figlia, Romantica,
un uomo, già volontario con Garibaldi, racconta del suo amore
giovanile per una ragazza di cui ricorda solo il nome, Palmira. La signora
Flavia sviene scivolando da cavallo e lo stalliere, Serafino, trema
sbottonandole il corsetto. La prostituta Innocenza appare come un vero angelo di Dio al
manovale Blasi che torna in paese a rivedere la madre. Vocesana e
Primante sono rivali tra loro, soprattutto nelle cerimonie
pasquali, quando bisogna decidere chi fa il Cristo e chi fa lo sbirro. Un uomo
e una donna, appartenenti a famiglie rivali, si ritrovano in una grotta per
difendersi da un Temporale
d’autunno e decidono di scappare insieme. Cata dorme, anzi
Cata è morta e non può ospitare i due ragazzi che, andati in città per
studiare, vogliono tornare in paese. Tre amici vagano in una terra straniera,
insieme al prete che avrebbero voluto rapinare, e aspettano con ansia che
passino Ventiquattro
ore, il tempo in cui dovrebbe realizzarsi la maledizione lanciata
da una donna contro non si sa chi di loro.
Questi dodici racconti – la maggior parte con protagoniste donne, tutti centrati su una realtà sociale marginale, ambientati (meno l’ultimo) in una Calabria mitica, dalla natura fiera e selvaggia, contenitore di passioni ancestrali e diffusa sensualità, e scenografia ideale di un’epopea della povera gente – appartengono ad una raccolta, nota col titolo di quello che li precede e dà il tono, fin dalle prime frasi, a tutto il libro.
Questi dodici racconti – la maggior parte con protagoniste donne, tutti centrati su una realtà sociale marginale, ambientati (meno l’ultimo) in una Calabria mitica, dalla natura fiera e selvaggia, contenitore di passioni ancestrali e diffusa sensualità, e scenografia ideale di un’epopea della povera gente – appartengono ad una raccolta, nota col titolo di quello che li precede e dà il tono, fin dalle prime frasi, a tutto il libro.
«Non
è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti
corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque. I pastori stanno nelle
case costruite di frasche e di fango, e dormono con gli animali. Vanno in giro
con i lunghi cappucci attaccati ad una mantelletta triangolare che protegge le
spalle, come si vede talvolta raffigurato qualche dio greco pellegrino e
invernale. I torrenti hanno una voce assordante».
Gente in
Aspromonte, pubblicato da Corrado Alvaro nel 1930 – una delle migliori opere del
Novecento italiano – sta alla letteratura calabrese come I promessi sposi stanno a quella nazionale: è un testo
assolutamente imprescindibile.
La vicenda – aperta dal già citato,
memorabile, incipit e chiusa con una affermazione altrettanto ricordevole: «“Finalmente,”
disse, potrò parlare con la Giustizia. Ché ci è voluto per poterla incontrare e
dirle il fatto mio!» – è quella del pastore
Argirò.
I buoi avuti in custodia da signor Filippo
Mezzatesta cadono in un burrone e per Argirò, scacciato dal suo padrone, inizia
una via Crucis che lo porta, prima dal fratello del padrone, Camillo Mezzatesta
e, poi, dall’usuraio Ignazio Lisca. Il figlio; Antonello, comincia a cogliere
il nocciolo della sua situazione – «Per la prima volta capiva di essere in mezzo
a qualche cosa di ingiusto; il sentimento della sua condizione gli si affacciò
improvviso e chiaro e si sentiva come un angelo caduto.» – mentre il padre
sogna che il riscatto sociale gli venga da un altro figlio; Benedetto, avviato
a tale scopo al sacerdozio. I figli illegittimi di Filippo Mezzatesta
incendiano la stalla di Argirò, provocando la morte della mula, che avrebbe
dovuto consentirgli il lavoro come trasportatore di merci. Antonello, che era
andato a lavorare in un altro paese per contribuire al mantenimento di
Benedetto in seminario, torna a casa povero e malato per l’eccessiva fatica
sostenuta in condizioni di fame e brucia il bosco dei Mezzatesta. Fa poi vita
da fuorilegge, una sorta di Robin Hood che ruba ai poveri per sfamare i ricchi,
finché viene arrestato.
Il
mondo di Gente
in Aspromonte è spaccato a metà. Da una parte, ricchi, ignoranti e
avari dei propri beni e del proprio nome (da cui donne non sposate in quanto
considerate socialmente inferiori e figli rimasti a lungo illegittimi);
dall’altra, poveri che non si rassegnano ad un destino di vinti, ma
percorrono strade senza uscita. Il tentativo del ribaltamento sociale,
attraverso la scelta ecclesiastica e/o fuorilegge, fallisce, eppure non tutto
resta come prima.
Corrado
Alvaro dipinge con sobria passione, con un realismo impregnato di mito e di
lirismo, con un amore che si fa stile, un mondo che sembra del tutto immobile,
eppure ha in sé fremiti di cambiamento: «Sembra un mondo spento, lunare. (…). È
una vita alla quale occorre essere iniziati per capirla, esserci nati per
amarla, tanto è piena, come la contrada, di pietre e di spine. (…) È un fatto
che qui manca la nozione geometrica della ruota. Ma per poco ancora. Come al
contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano, si polverizzò così questa
vita. È una civiltà che scompare, e su di essa non c’è da piangere, ma bisogna
trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie.»
Pubblicato su Zoomsud http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/99985-le-recensioni-di-maria-franco-rileggendo-gente-in-aspromonte-di-corrado-alvaro
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