L’ho
chiamata già tre volte, ma Lidia è rimasta china a raccogliere conchiglie. A
me, le conchiglie sono indifferenti, ma odio questa spiaggia con poca sabbia e
molte pietre, piena di cacche di cane, plastiche, cartacce e sporcizie di
diverso genere. E odio pure il mare: d’inverno e, soprattutto, d’estate quando
le mie compagne si spaparanzano mini costumi per abbronzarsi meglio. Vorrei vivere in un paese di montagna, con
la neve bianca che scende sugli abeti e il freddo che arrossa le guance e non sentire
questo sudore che scivola sotto le ascelle in giornate come queste, che a
dicembre sembra primavera. Oppure, in una città con la biblioteca, il teatro e
musei dove poter passare domeniche e feste comandate. Invece, mi tocca
sopportare il sole e, certe cose, vederle solo in tv o su internet.
Lidia
ha dieci anni, cinque meno di me, e diventerà una ragazza bella, contenta di sé
e con un fidanzato giusto. Non la
sopporto, come non sopporto nessuno dei miei parenti per parte di padre. Con
quelli materni, vado più d’accordo: perché non ne ha.
Zia
Luisa e mia mamma sono andate a fare la spesa grossa per la Vigilia e Natale –
si fa la tavolata dei parenti: tutti sembrano contenti, io no – e mi tocca
stare qualche ora con lei. Comunque, meglio conchiglie che presepi. Prima di
arrivare a mare – a stare insieme a casa mi pareva d’impazzire – è voluta entrare
in chiesa e squittiva su questo o quel pastorello.
Io
non credo a Dio e nelle chiese soffoco.
Veramente,
soffoco dappertutto. È questo luogo che mi sta stretto. Una volta – dicono – il
mare era bello. Io, vedo che ci sboccano dentro le fogne e che la spiaggia è
imprigionata da cancelli di ferro. E tutta ‘sta bellezza dell’Etna non ce la
vedo: e, comunque, non sarebbe bellezza di questo
luogo.
Non
mi piace niente di qui, neppure i petrali.
Voglio
andare via. Lontana da questo dialetto, dalla gente che ti giudica strana se
non sei come lei, da quest’aria immobile.
Io
bella non sono e non lo diventerò: anche se dimagrissi e mettessi una parrucca,
non ho forme aggraziate e anche il mio viso è senza armonia. Non mi piaccio, ma
fingo che della bellezza fisica non mi importa niente e quello che conta è
l’intelligenza e il sapere.
Una
cosa di me mi piace. Anzi: non mi piace ma mi piace. Mi chiamo Esterina, come
mia nonna. Di per sé il nome mi fa vomitare e anche che sia il nome di mia
nonna mi secca assai. Ma certe volte lo prendo come se, nel mio destino, ci
fosse, chiaramente, che andrò via da qui, chissà magari in Inghilterra o in
America: e, allora, mi sembra quasi bello.
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