«“Scusi.” “Mi dica.” “Lei per caso conosce
Corrado Alvaro?”. “No, mi spiace, Non so chi sia.”»
Insieme a Giorgio Ghiotti, Angela Bubba –
calabrese che studia a Roma, già autrice di La casa, NaliNati, Elsa Morante,
madre e fanciullo – se ne va per le strade della capitale che hanno visto
nascere e/o vivere alcuni grandi autori del nostro 900, dalla Morante a
Pasolini, da Rodari ad Anna Maria Ortese (ma Angela Bubba, per la Morante
correggerebbe: “il più grande scrittore italiano di tutti i tempi”), a chiedere
alle persone che incontra se ne hanno memoria, se ricordano qualche episodio,
anche piccolo, della loro presenza in quella via, in quel palazzo.
Cinquanta anni in due, casco alla mano, la
necessaria sfrontatezza, Angela Bubba e Giorgio Ghiotti mettono in atto, in una
città notoriamente smemorata, troppo ricca di storia per tenere dietro a tutti
i particolari che l’hanno fatta grande, una sorta di esercizio di memoria
collettiva. Ma, anche, un loro bisogno di cercare, nel quotidiano, assonanze
con parole e personaggi che, nel loro immaginario, sono altrettanto, se non
più, concreti dei luoghi. Luoghi che di quelle parole e di quei personaggi sono
tuttora intrisi: di quello, anche se inconsapevolmente, respirano come, di
solito, si è inconsapevoli dell’aria che inspiriamo ed espiriamo continuamente.
Non ne ricavano moltissimo, in termini di
novità sulle abitudini quotidiane di questo o di quell’autore, ma i richiami,
le suggestioni, le emozioni non mancano in questo loro viaggio, meglio:
pellegrinaggio, raccolto in La via degli angeli, appena edito da Bompiani.
La signora che non sa chi sia Corrado Alvaro
(l’unica tra trenta interpellati, che aveva provato a rispondere) si ferma a
parlare: «“È un conduttore televisivo, per caso?”. La donna mi si è avvicinata,
mi studia con un misto di vergogna e rincrescimento. “No,” rispondo subito. “È
uno scrittore.”. “Ah sì?” Quasi ci rimane male. “Allora mi sto confondendo. E
mi dica, è ancora vivo?”. “Purtroppo no.” “Eppure avrei giurato che fosse un
conduttore.” “Gente in Aspromonte, L’età breve, Il mare, quasi una vita…” “Sono
titoli dei suoi libri?”. “Esatto.” “Mai sentiti.”»
Ma la signora insiste a cercare nella sua
mente, fino a quando ricorda: un uomo “tarchiato”, con “quella facciona piena,
sana, bella. Di un’altra epoca. Era dell’Ottocento, vero?”: «“Mio padre, lo sa,
aveva quasi tutti i suoi libri. Prima quando me li ha elencati non mi hanno
fatto alcun effetto. Poi, invece, non so cosa sia successo…” “Abitava da queste
parti, lo sapeva?”»
La signora
lo ignora e l’autrice la invita a leggere la targa che sta alle sue spalle, «le
poche righe che commemorano la vita e l’opera di Corrado Alvaro e che attestano
la sua presenza in quell’appartamento, in quella via precisa di Roma. La sua
voce è quasi un sibilo, un sussurro inquinato da tanti altri sussurri dispersi
nell’ambiente, dalle parole e dai gesti degli sconosciuti alle mie domande.
“Sono passata da qui tante di quelle volte…” dice dopo un po’ la signora. “E
non l’aveva mai notata.” “Infatti, non avevo mai visto questa targa perché
andavo sempre troppo di fretta, la fretta era sempre una buona scusa per non
vederla” (…) “Credo che non lo dimenticherò mai più, d’ora in poi.”»
L’autrice resta sola, con in mente tante
immagini di Alvaro: «Istintivamente ricordo Rinaldo Diacono, il protagonista
dell’Età breve, forse il più bel romanzo di Alvaro, e non faccio fatica a
rintracciare le medesime sensazioni. È un’operazione ragionevole, mi dico,
collegare uno scrittore a uno dei migliori personaggi e in questo modo
costruire ponti, congetture, teorie certe. E poi, come se non bastasse, anche
quel Rinaldo Diacono era calabrese, anche quel Rinaldo Diacono si trasferì più
o meno forzatamente a Roma, anche quel Rinaldo Diacono fece un sacco di altre
cose associabili al suo archetipo.”»
Sulle strade
della Calabria (come già in Statale 18), dell’Italia e dell’Europa, in
macchina, in treno, in aereo, l’autore – «un intellettuale senza toga e un
essere umano dal domicilio instabile; (…) antropologo narrabondo senza fissa
dimora» – è sempre in movimento, in permanente fuga da qualcosa e di qualcosa
continuamente alla ricerca: «L’ultimo viaggio è ancora quello che resta dalla
somma imperfetta tra l’andare e il tornare.»
Il racconto
dei suoi viaggi, quelli vicini e quelli che più lo portano lontano dal luogo
della sua instabile residenza, diventa così, in Stradario di uno spaesato edito da Melville, un’autobiografia, seppure
frammentaria: una narrazione di fatti, persone e incontri, ma anche una ricerca
del proprio io profondo, un tentativo di comprendere il senso del suo stesso
muoversi.
E, in alcuni
tratti, anche una biografia collettiva, come nelle pagine dedicate
all’esperienza universitaria: «Arcavacata era l’università “per gli studenti
poveri della Calabria”, e io ero tra quelli. Studente di Filosofia, al primo
anno accademico nel ’79/’80. Matricola 840. È stata la mia unica vera occasione
per cambiare pelle. Era tutto all’inizio, e ci sembrava nuova pure la vita. A
diciannove anni io ero lì ad Arcavacata a inventarmi una vita mia che non fosse
quella del ferroviere, come mio padre. Erano anni senza ipocondrie, buoni per
le grandi imprese e per le illusioni abbaglianti. Arcavacata è stato il bozzolo
delle mille metamorfosi, non solo la mia. All’università “per studenti poveri
della Calabria” c’erano le ragazze. Mai viste tante ragazze, tante donne
giovani e belle, prima di allora. Studiavo molto e fantasticavo molto. (…)
Arcavacata è stato il bozzolo delle mille trasformazioni, la cova, l’incubatoio
generazionale che ci ha tenuto al caldo anche in questo nostro provinciale
svezzamento umanistico-erotico-sentimentale.»
Le figure
del padre ferroviere, della nonna che parlava alla luna e mai credette
all’allunaggio americano, del maestro Sosonn Ferrari, di Giuseppe Berto e
Danilo Dolci, delle puttane vere all’angolo d’una strada e delle tante persone
che popolano il libro s’intrecciano fortemente ai luoghi.
Quelli
visitati in giro per l’Italia e l’Europa e, soprattutto, quelli calabresi, cui
l’autore cambia i nomi (Paola diventa Petra, Cosenza si trasforma in
Cosengeles, Catanzaro in Bisantia, Lametia in Nettunia, la Costa degli dei
Costa degli Sfregi): «Cosa resterà alla fine di questo mare ridotto a una zuppa
di spazzature e di orgoglio ferito, quando si è intorbidita e offesa la sua
bellezza, annichilito anche l’ultimo metro di spiaggia, e sporcata la terra,
sporcato il cielo, assaltata anche l’ultima isoletta sottovento?».
Nella
correlazione persone-paesaggio, Mauro Francesco Minervino dà un’importanza
particolare al secondo: «Gli uomini e le donne che ho incontrato e che racconto
in questi frattali di viaggi, li porto con me, sono come me. Non possono vivere
da soli, ma soffrono le compagnie corrive. Sono ospiti disprezzati, vanno in
giro a cercare qualcuno, qualcosa, hanno bisogno di legami, anche se capita poi
di sentirsene prigionieri, di rassegnarvisi o di volerli rompere fuggendo un
attimo dopo il primo incontro, la prima stretta di mano, il primo bacio di
corsa. Hanno bisogno di “paesaggi” in cui accamparsi e quindi anche di un po’
di racconto, di narrazioni minime che li ricreano trasformando il silenzio in un
dono di parole. Molto più di quanto so vedere e ascoltare, mi piacerebbe avere
la capacità di saper far parlare le vite qualunque, perché in realtà ogni
esistenza incontrata per strada è particolare, e merita di essere illuminata
prima di essere riassorbita dal vuoto. Invece i paesaggi e i luoghi che mi
riesce di esplorare e di rievocare, anche quando l’origine è una porzione
eterogenea di spazio storico o geografico rigenerata da un ricordo – non
importa il dove –, questi non cessano mai di spuntare come lo sfondo di tutto,
l’ospite da interrogare tra un passaggio e l’altro, tra una rilettura all’altra
delle mie giornate. Le persone passano e il tema del luogo permane. La
scrittura e il paesaggio sono simbolici, mi parlano sempre di ciò che
condividiamo col mondo, e aprono a ciò che del mondo, e per ciascuno di noi,
resta pur sempre diverso ed estraneo.»
Il suo
girovagare in lungo e largo per le zone anche meno frequentate della terra
natale – «La Calabria che conosco io oggi è un groviglio di strade senza una
via d’uscita. Un posto per me e contro di me. Con le mie stesse inquietudini
irrisolte e flagranti. Un luogo grande e aperto come il deserto, con il cielo e
il mare e le montagne, tutto accavallato e buttato sottosopra. Un mondo gettato
per strada» – lo porta a conclusioni inquiete.
«Al Sud –
scrive Minervino – è come se il dividendo del progresso civile che
faticosamente tentiamo di mettere a frutto, con tutto quello che si guadagna da
un lato, venisse vorticosamente dilapidato dall’altro con l’impazzimento del
traffico e delle betoniere, con l’inarrestabile consumo di cemento e di suolo,
con l’offesa costante alla legalità e alla bellezza. Basti pensare al peso
delle mafie sui territori, all’enorme questione ecologica e ambientale (oltre
che estetica) che non cessa di investire e brutalizzare il paesaggio, che
continua a essere sfigurato dagli abusi e dalle colate di calcestruzzo. Tutto
sembra procedere all’impronta di un caos incontrollato, di una mobilità folle,
esasperata, in cui mobilità significa anche l’occasionalità, la casualità,
l’impulso a distruggere e negare, in cui tutto è compresente, mescolato in modo
indistinto; una cosa sale sull’altra, tutto è coi piedi all’aria, scompiglio
che mai arriva a sintesi, a una qualche ragionevole forma di riposo. Questa
continua “rotazione” (un’altra figura che la strada a sud mi suggerisce sempre)
rende quasi indecifrabile non solo ogni tentativo di previsione a lungo e medio
termine, ma spesso anche la semplice comprensione dei fatti elementari, delle
scelte quotidiane. Ecco perché le ineguaglianze sono aumentate nonostante
l’ingresso di nuovi protagonisti attivi sulla scena della storia.»
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