domenica 4 dicembre 2016

Dara, Abate, Nucera: le mie recensioni per Zoomsud




Queste sono le mie recensioni per Zoomsud degli ultimi libri  di Domenico Dara, Carmine Abate e Ida Nucera Ida Nucera





«Come una megaptera. Nella sua migrazione stagionale percorreva seimila chilometri di sconfinata acqua oceanica seguendo ogni anno con precisione assoluta la stessa identica variazione di grado; dai fiordi norvegesi di Alesund alle coste africane di Nouadhibou non deviava di un millimetro dalla rotta consueta, come seguisse una strada invisibile, come se gli animali si muovessero seguendo orbite evanescenti. Anche gli uomini sembravano percorrere traiettorie già tracciate (…) A vederli dall’alto, nel Piano, in quell’ampio spazio al centro del paese verso cui confluivano le quattro strade principali e che lui guardava allo stesso modo in cui la sera osservava e studiava la volta stellata, gli uomini sembravano muoversi come corpi celesti. (…) O come pianeti nei loro moti di rivoluzione e rotazione. (…) bastava un grado in più o in meno, un misero grado, e non ci sarebbe stato niente, né il giorno né la notte, le stagioni, il volo degli uccelli, il tempo, gli uomini con i loro infiniti affanni. Nulla. (…)
Un solo grado: il capello di don Venanzio impigliato nel pettine, un pezzo d’unghia rosicchiato e sputato da Mararosa, lo spessore della carta con cui Rorò impacchettava i pasticcini, lo stelo d’una primula, un lendine secco, una foglia d’origano, un vinacciolo, un grano di pepe nero, un trappeso d’argento, una ciglia perduta, un ago, un filo di broccato, un pelo di coniglio, un’ala di moscone, una trocofora, il punto d’una coccinella, un pizzico di sale, un poro della pelle, un girino, un coccio di grano, un chicco d’uva acerba, uno scrupolo d’oro, una spina di rosa, la vite di un goniometro, un grammo di ruggine, un punto croce, la fuga d’un mosaico, un seme di lino, una scheggia di vetro, una goccia cinese, un bigattino, la larva di una libellula, una virgola, lo spessore della particola, il bulbo di un capello, una staffa umana, un globulo rosso, un tarlo, la punta metallica di un compasso, un polline, la scala di Planck, il nulla tra la trama e l’ordito.»

Con Appunti di meccanica celeste, recentemente edito da Nutrimenti, Domenico Dara (nato a Catanzaro) torna a Girifalco, piccolo paese calabro, in cui è ambientato il suo primo libro (e dove lui stesso è cresciuto), «punto sperduto della mappa universale», delimitato «a nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano tutte tra la follia e la morte», e metafora della più generale condizione umana.

Il postino, appassionato delle altrui lettere d’amore, protagonista del Breve trattato sulle coincidenze, viene qui sostituito (o amplificato) da sette personaggi principali: il pazzo Lulù, suonatore di foglie; la sicca Cuncettina Licatella, intristita dalla mancata maternità; la mala Mararosa Praganà, infelice per un amore irrealizzato; la venturata Rorò Partitaru, datata dalla sorte di una mantellina per proteggerla da fastidi grandi e piccoli che punzecchiavano il resto dell’umanità»; Angeliaddu u Biondo, figlio della mite Tatiana e di padre ignoto; l’ epicureo Venanzio Micchiaduru, che, dietro la fama di “ricchìuna”, offriva le sue, ben gradite, attenzioni alle donne maritate del paese; lo stoico Archidemu Crisippu, dal cuore sbrindellato per la scomparsa del fratello, che si dedica, per sopravvivere, ai ragionamenti scientifico-filosofici.

Tutte e sette sospesi, come la miriade di personaggi minori, in orbite determinate, come fossero ancorati ai ripetitivi movimenti dei corpi celesti: fissi sempre nelle stesse azioni e negli stessi pensieri. Ma le loro esistenze mutano profondamente nel corso dei giorni che vanno dal 9 al 24 agosto, complici i desideri affidati alle stelle la notte di San Lorenzo, le feste patronali che si concludono con la Spartenza, ovvero la separazione tra le statue della Madonna e di San Rocco, col rientro della prima nella chiesa matrice, con le spalle all’altare, e l’inatteso arrivo in paese del circo Engelmann.

Poiché «a pensarci bene, tutte le nostre vite sono una catena di eventi sospesi: le cose si interrompono improvvisamente, senza avvisaglie, senza avvertimenti, ed è questo il dolore della vita: il congedo mancato. Ma poi accade qualcosa: Plutone e Nettuno che dovrebbero scontrarsi non si urtano mai, dimostrando che anche nell’indefettibile meccanica celeste c’è posto per la pietà; e così anche tra gli uomini fallibili», «Che pietà è un modo diverso di chiamare l’eccezione, lo scarto dalla regola, la pietà è risonanza orbitale e umana che aggiusta il mondo, il clinamen che sovverte la regola, la traiettoria di un asteroide che inclina la Terra di 23,5 gradi, la via che percorre la Provvidenza quando il meccanismo si inceppa.»

Tutta la storia, con le vicende dei personaggi che si contrappongono e si intrecciano, è sospesa tra realismo e magia, come una grande ruota in movimento nell’azzurro, tra terra e cielo. Toni fiabeschi, sorridente ironia, osservazioni realiste, misurata malinconia, la sapienza di cogliere col giusto struggimento l’attimo in cui si concretizza il senso profondo d’ogni singola vita: tutto si compone in un’armonia narrativa, impreziosita da un vivace uso delle metafore e da un bell’impasto tra lingua colta e dialetto. Un plauso particolare va alla scelta dei nomi dei personaggi: un vero e proprio romanzo nel romanzo.

I tanti che, nel 2014, hanno salutato con entusiasmo la pubblicazione di Breve trattato sulle coincidenze come la nascita di un nuovo scrittore, troveranno felice conferma in questo Appunti di meccanica celeste delle sicure doti narrative di Domenico Dara.








«Per invogliarmi a seguirla, la nonna mi promise che mi avrebbe portato nel luogo più stralucente dei dintorni, di una magarìa rapinosa. (…) Alla nonna risposi: “No, io non vengo con te, non tengo nessuna gulìa di camminare”. Lei mi sorrise, sapeva come prendermi: “Se vieni, ti faccio la frittatàtica mare e monti, quella che ti piace assai. Ce la mangiamo appena arriviamo là. (…) La nonna prese la padella più grande e gli ingredienti che le servivano per la frittata mare e monti di sua creazione: l’olio del Pigàdo, cinque uova delle galline nostre, due cucchiaiate di sardella, un trancio di tonno e qualche fungo sott’olio, una cipolla rossa, un pizzico di pepe e sale. Aveva mani piccole e magre, ma fortissime, la nonna. E cominciò a tagliuzzare la cipolla e i funghi, a rompere le uova con un colpetto secco sul bordo di un grande piatto, dove mescolò tutti gli ingredienti usando la forchetta con una velocità sorprendente. Appena l’olio nella padella prese a sfrigolare, versò il composto con delicatezza e mi disse: “Sarà una cosa fina.” I profumi cominciarono a stuzzicarmi il naso. E quando vidi la nonna tagliare in due il pane fresco e morbido, che noi chiamiamo shtipura, mi venne l’acquolina in bocca.»

«Per invogliarlo a seguirmi, promisi a mio figlio che il giorno della Pasquetta lo avrei portato a Punta Alice, il luogo più stralucente dei dintorni, e Michele, che ama il mare, mi disse subito di sì. (…) in suo onore mia madre decise di preparare le cuzzupe, come non faceva da quando ero bambino. Mio padre le portò rronxen dal bosco, le radici di robbia. E Michele osservò stregato la nonna che le schiacciava con una pietra piatta fino a sfilacciarle e le sistemava poi in una pentola piena d’acqua tiepida e di uova fresche. Nella mattinata aveva impastato la farina di grano tenero aggiungendovi semini di anice, sale, zucchero e un po’ d’olio. E, mentre le uova si tingevano di rosso, lei si sbizzarriva a intrecciare e intagliare i cordoni di pasta a forma di paniere, di uccello, di otto o addirittura di capanna, infilando sulla ciambella tre pezzetti di legno rivestiti di pasta. “Mo’ tocca a te”, disse infine a Michele, che non stava più nella pelle dall’eccitazione. Spettava al più piccolo incastonare le uova rosse di robbia dentro la pasta lavorata.»

Dalla propria infanzia all’infanzia del primo figlio, Carmine Abate firma col suo ultimo libro, Il banchetto di nozze altri sapori, recentemente edito da Mondadori, una sorta di autobiografia alimentare. Ovvero, ricostruisce la sua storia, quella della sua famiglia e della comunità arbëresh cui continua ad essere legato, attraverso i sapori, i colori, il fragrante tripudio dei cibi che hanno costellato la sua crescita, le sue esperienze di bambino, di figlio di un germanese, cioè di un emigrato in Germania, di studente fuori casa, di laureato in lettere, di emigrato egli stesso in Germania, di professore in Trentino, la terra di mezzo, diventata casa sua e della moglie tedesca: «Eravamo entrambi grati alla terra di mezzo che aveva rafforzato il nostro amore, mentre la Calabria e la Germania, con la loro influenza prepotente su di noi, tendevano a indebolirlo.»

Scorrono nel libro decine e decine di nomi di cibi e ricette, soprattutto arbëreshë ed anche tedeschi e trentini. Ma Il banchetto di nozze e altri sapori non ha niente a che fare con i troppi libri in circolazione che parlano di cibo. Nonostante sia un continuo affresco di primi, secondi, contorni, dolci, non produce il senso della malsana abbuffata. Documento prezioso per storici e sociologi, il nuovo libro di Carmine Abate è il racconto di uno scrittore di razza su un modo di essere, di assaporare la vita, di creare relazioni autentiche, di dare alla cultura “il sapore della cuntentizza”: «Cucinare, mangiare vuol dire questo: accogliere. Gli amori, gli amici, i figli, i nipoti.»





Più che letto, Quel poco che so dirti - Il sorriso e la croce, tra Buddha e Gesù di Ida Nucera, recentemente pubblicato da Città del Sole, andrebbe respirato. Come quei venti leggeri, odorosi di profumi lievi e intensi che, conosciuti o ignoti che siano, vivificano corpo e spirito e risuonano di misteriosi, profondi richiami nel nucleo più profondo dell’essere.

Alla figlia diciasettenne che un giorno d’autunno le pone la domanda: “Mamma, il Buddha sorride invece il Crocifisso rappresenta un uomo che soffre e muore torturato. Non è tanto facile da accettare… perché per noi cristiani proprio la croce?, Ida Nucera risponde con una sorta di lettera-meditazione sulla propria esperienza di fede: “Rinunciando a certezze, a catechizzarti, ti offro ciò che mi ha aiutato e continua a farlo lungo la strada. Esperienze, incontri, libri, canzoni, film. Il Vangelo. Lo farò non perdendo di vista il ciondolo sorridente del Buddha. (…) Siamo l’espressione mai statica delle esperienze e degli incontri che facciamo. (…) È un orizzonte nuovo che si intreccia, senza contraddizioni alla stella polare della mia vita: la vocazione cristiana…”

Non, quindi, un saggio, o una riflessione sulle tradizioni religiose occidentali e orientali, ma il racconto, intimo, sussurrato – da madre a figlia – del cammino interiore dell’autrice, del suo intimo sentire: “Perché scrivere ad una figlia per parlare della cosa più difficile al mondo, il mistero del credere, e non solo, credere in un Dio che continua ad essere scandalo e follia? Se continua ad esserlo, vuol dire che ‘tira’ ancora, come dite voi giovani, questo Gesù crocifisso, che dal legno della croce pare stia sorridendo. Potrò darti qualche risposta? Non credo che possa funzionare se incarto i pensieri. Devo lasciarli liberi di muovere, i tuoi, in modo che possano farti provare un accenno di desiderio a volare più in alto di dove la tua età ti porti. Forse dovrei rivolgerti un pensiero semplice, chiaro e convincente. Non sarà niente di tutto questo. L’esperienza di un incontro che cambia la vita non è in contrasto con un cuore che non cessa di cercare ed anche dubitare.”

Il racconto procede per frammenti – “È solo un’inquadratura quella che ti fornisco, per avere una visione d’insieme ci vorrebbero anni di ricerca e lavoro, ma è qui ed ora, prima che tu spicchi il volo per altre mete, che voglio starti accanto, donando quel poco che so dirti di quel tanto ricevuto in regalo” – restituendo al lettore alcuni dei padri e, soprattutto, delle madri che hanno accompagnato l’autrice nel suo cammino. Tra i tanti, i padri gesuiti da lei conosciuti a Reggio, sant’Ignazio e san Francesco Saverio, papa Bergoglio, don Lorenzo Milani, il vescovo Bregantini, Guglielma Boema, Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux, Etty Hillesum, Simone Weil, suor Mirella, eremita in Calabria.

Maestri di contemplazione e preghiera, ovvero di colloquio aperto con l’Altro nella libera apertura del cuore, e, nello stesso tempo, maestri/e di vita pratica perché “la fede dell’uomo non può essere separata dalla sua carne, sta per sempre agli ‘incroci della storia’, dove uomini e donne soffrono e restano appesi alla croce dell’ingiustizia.”

Ne conseguono non solo la cura dell’interiorità – l’andare con coraggio sempre più dentro se stessi – ma anche precise scelte di campo: dallo schierarsi a favore degli immigrati – considerando la loro presenza come un grande segno di speranza – alla passione nei confronti della città.

Non per nulla un intero capitolo è dedicato all’incendio del Museo dello Strumento musicale di Reggio: “La fede non è tale se ignoriamo la realtà nella quale si vive, se qualcosa ci chiude dentro noi stessi. Se le coordinate dell’anima, le verticali armoniosamente incrociate alle orizzontali della nostra umanità, non ci spingono alle relazioni. L’ingiustizia ci provoca. Chiede un discernimento e un’assunzione di responsabilità. (…) Reggio è ultima frontiera, avamposto del nulla, non luogo dove si bruciano i centri sociali, le chiese ortodosse, i musei. (…) È tanto il buio in questa nostra città e nel nostro Paese e ci vuole molto coraggio per scorgerne la prima luce fioca. Ma sta proprio in questa capacità di reazione profondamente non violenta, tanto da lasciare spiazzati, la chiave per ricostruire musei, umanità, coscienze. Nel momento del massimo sconforto, riuscire ad esprimere la gioia della condivisione e della festa.”

 




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