Queste sono le mie recensioni per Zoomsud degli ultimi libri di Domenico Dara, Carmine Abate e Ida Nucera Ida Nucera
«Come una
megaptera. Nella sua migrazione stagionale percorreva seimila chilometri di
sconfinata acqua oceanica seguendo ogni anno con precisione assoluta la stessa
identica variazione di grado; dai fiordi norvegesi di Alesund alle coste
africane di Nouadhibou non deviava di un millimetro dalla rotta consueta, come
seguisse una strada invisibile, come se gli animali si muovessero seguendo
orbite evanescenti. Anche gli uomini sembravano percorrere traiettorie già
tracciate (…) A vederli dall’alto, nel Piano, in quell’ampio spazio al centro
del paese verso cui confluivano le quattro strade principali e che lui guardava
allo stesso modo in cui la sera osservava e studiava la volta stellata, gli
uomini sembravano muoversi come corpi celesti. (…) O come pianeti nei loro moti
di rivoluzione e rotazione. (…) bastava un grado in più o in meno, un misero
grado, e non ci sarebbe stato niente, né il giorno né la notte, le stagioni, il
volo degli uccelli, il tempo, gli uomini con i loro infiniti affanni. Nulla.
(…)
Un solo
grado: il capello di don Venanzio impigliato nel pettine, un pezzo d’unghia
rosicchiato e sputato da Mararosa, lo spessore della carta con cui Rorò
impacchettava i pasticcini, lo stelo d’una primula, un lendine secco, una
foglia d’origano, un vinacciolo, un grano di pepe nero, un trappeso d’argento,
una ciglia perduta, un ago, un filo di broccato, un pelo di coniglio, un’ala di
moscone, una trocofora, il punto d’una coccinella, un pizzico di sale, un poro
della pelle, un girino, un coccio di grano, un chicco d’uva acerba, uno
scrupolo d’oro, una spina di rosa, la vite di un goniometro, un grammo di
ruggine, un punto croce, la fuga d’un mosaico, un seme di lino, una scheggia di
vetro, una goccia cinese, un bigattino, la larva di una libellula, una virgola,
lo spessore della particola, il bulbo di un capello, una staffa umana, un
globulo rosso, un tarlo, la punta metallica di un compasso, un polline, la
scala di Planck, il nulla tra la trama e l’ordito.»
Con Appunti di meccanica celeste,
recentemente edito da Nutrimenti, Domenico Dara (nato a Catanzaro) torna a
Girifalco, piccolo paese calabro, in cui è ambientato il suo primo libro (e dove
lui stesso è cresciuto), «punto sperduto della mappa universale», delimitato «a
nord dal manicomio e a sud dal cimitero, così che le sue genti si muovevano
tutte tra la follia e la morte», e metafora della più generale condizione
umana.
Il postino,
appassionato delle altrui lettere d’amore, protagonista del Breve trattato sulle coincidenze, viene
qui sostituito (o amplificato) da sette personaggi principali: il pazzo Lulù, suonatore di foglie; la sicca Cuncettina Licatella, intristita
dalla mancata maternità; la mala
Mararosa Praganà, infelice per un amore irrealizzato; la venturata Rorò Partitaru, datata dalla sorte di una mantellina per
proteggerla da fastidi grandi e piccoli che punzecchiavano il resto
dell’umanità»; Angeliaddu u Biondo, figlio della mite Tatiana e di padre
ignoto; l’ epicureo Venanzio
Micchiaduru, che, dietro la fama di “ricchìuna”, offriva le sue, ben gradite,
attenzioni alle donne maritate del paese; lo stoico Archidemu Crisippu, dal cuore sbrindellato per la scomparsa
del fratello, che si dedica, per sopravvivere, ai ragionamenti
scientifico-filosofici.
Tutte e
sette sospesi, come la miriade di personaggi minori, in orbite determinate,
come fossero ancorati ai ripetitivi movimenti dei corpi celesti: fissi sempre
nelle stesse azioni e negli stessi pensieri. Ma le loro esistenze mutano
profondamente nel corso dei giorni che vanno dal 9 al 24 agosto, complici i
desideri affidati alle stelle la notte di San Lorenzo, le feste patronali che
si concludono con la Spartenza, ovvero la separazione tra le statue della
Madonna e di San Rocco, col rientro della prima nella chiesa matrice, con le
spalle all’altare, e l’inatteso arrivo in paese del circo Engelmann.
Poiché «a
pensarci bene, tutte le nostre vite sono una catena di eventi sospesi: le cose
si interrompono improvvisamente, senza avvisaglie, senza avvertimenti, ed è
questo il dolore della vita: il congedo mancato. Ma poi accade qualcosa:
Plutone e Nettuno che dovrebbero scontrarsi non si urtano mai, dimostrando che
anche nell’indefettibile meccanica celeste c’è posto per la pietà; e così anche
tra gli uomini fallibili», «Che pietà è un modo diverso di chiamare
l’eccezione, lo scarto dalla regola, la pietà è risonanza orbitale e umana che
aggiusta il mondo, il clinamen che sovverte la regola, la traiettoria di un
asteroide che inclina la Terra di 23,5 gradi, la via che percorre la
Provvidenza quando il meccanismo si inceppa.»
Tutta la
storia, con le vicende dei personaggi che si contrappongono e si intrecciano, è
sospesa tra realismo e magia, come una grande ruota in movimento nell’azzurro,
tra terra e cielo. Toni fiabeschi, sorridente ironia, osservazioni realiste,
misurata malinconia, la sapienza di cogliere col giusto struggimento l’attimo
in cui si concretizza il senso profondo d’ogni singola vita: tutto si compone
in un’armonia narrativa, impreziosita da un vivace uso delle metafore e da un
bell’impasto tra lingua colta e dialetto. Un plauso particolare va alla scelta
dei nomi dei personaggi: un vero e proprio romanzo nel romanzo.
I tanti che,
nel 2014, hanno salutato con entusiasmo la pubblicazione di Breve trattato
sulle coincidenze come la nascita di un nuovo scrittore, troveranno felice
conferma in questo Appunti di meccanica
celeste delle sicure doti narrative di Domenico Dara.
«Per
invogliarmi a seguirla, la nonna mi promise che mi avrebbe portato nel luogo
più stralucente dei dintorni, di una magarìa rapinosa. (…) Alla nonna risposi:
“No, io non vengo con te, non tengo nessuna gulìa di camminare”. Lei mi
sorrise, sapeva come prendermi: “Se vieni, ti faccio la frittatàtica mare e
monti, quella che ti piace assai. Ce la mangiamo appena arriviamo là. (…) La
nonna prese la padella più grande e gli ingredienti che le servivano per la
frittata mare e monti di sua creazione: l’olio del Pigàdo, cinque uova delle
galline nostre, due cucchiaiate di sardella, un trancio di tonno e qualche
fungo sott’olio, una cipolla rossa, un pizzico di pepe e sale. Aveva mani
piccole e magre, ma fortissime, la nonna. E cominciò a tagliuzzare la cipolla e
i funghi, a rompere le uova con un colpetto secco sul bordo di un grande
piatto, dove mescolò tutti gli ingredienti usando la forchetta con una velocità
sorprendente. Appena l’olio nella padella prese a sfrigolare, versò il composto
con delicatezza e mi disse: “Sarà una cosa fina.” I profumi cominciarono a
stuzzicarmi il naso. E quando vidi la nonna tagliare in due il pane fresco e
morbido, che noi chiamiamo shtipura, mi venne l’acquolina in bocca.»
«Per
invogliarlo a seguirmi, promisi a mio figlio che il giorno della Pasquetta lo
avrei portato a Punta Alice, il luogo più stralucente dei dintorni, e Michele,
che ama il mare, mi disse subito di sì. (…) in suo onore mia madre decise di
preparare le cuzzupe, come non faceva da quando ero bambino. Mio padre le portò
rronxen dal bosco, le radici di robbia. E Michele osservò stregato la nonna che
le schiacciava con una pietra piatta fino a sfilacciarle e le sistemava poi in
una pentola piena d’acqua tiepida e di uova fresche. Nella mattinata aveva
impastato la farina di grano tenero aggiungendovi semini di anice, sale,
zucchero e un po’ d’olio. E, mentre le uova si tingevano di rosso, lei si
sbizzarriva a intrecciare e intagliare i cordoni di pasta a forma di paniere,
di uccello, di otto o addirittura di capanna, infilando sulla ciambella tre
pezzetti di legno rivestiti di pasta. “Mo’ tocca a te”, disse infine a Michele,
che non stava più nella pelle dall’eccitazione. Spettava al più piccolo
incastonare le uova rosse di robbia dentro la pasta lavorata.»
Dalla
propria infanzia all’infanzia del primo figlio, Carmine Abate firma col suo
ultimo libro, Il banchetto di nozze altri
sapori, recentemente edito da Mondadori, una sorta di autobiografia
alimentare. Ovvero, ricostruisce la sua storia, quella della sua famiglia e
della comunità arbëresh cui continua ad essere legato, attraverso i sapori, i
colori, il fragrante tripudio dei cibi che hanno costellato la sua crescita, le
sue esperienze di bambino, di figlio di un germanese, cioè di un emigrato in
Germania, di studente fuori casa, di laureato in lettere, di emigrato egli
stesso in Germania, di professore in Trentino, la terra di mezzo, diventata
casa sua e della moglie tedesca: «Eravamo entrambi grati alla terra di mezzo
che aveva rafforzato il nostro amore, mentre la Calabria e la Germania, con la
loro influenza prepotente su di noi, tendevano a indebolirlo.»
Scorrono nel
libro decine e decine di nomi di cibi e ricette, soprattutto arbëreshë ed anche
tedeschi e trentini. Ma Il banchetto di nozze e altri sapori non ha niente a
che fare con i troppi libri in circolazione che parlano di cibo. Nonostante sia
un continuo affresco di primi, secondi, contorni, dolci, non produce il senso
della malsana abbuffata. Documento prezioso per storici e sociologi, il nuovo
libro di Carmine Abate è il racconto di uno scrittore di razza su un modo di
essere, di assaporare la vita, di creare relazioni autentiche, di dare alla
cultura “il sapore della cuntentizza”: «Cucinare, mangiare vuol dire questo:
accogliere. Gli amori, gli amici, i figli, i nipoti.»
Più che
letto, Quel poco che so dirti - Il
sorriso e la croce, tra Buddha e Gesù di Ida Nucera, recentemente
pubblicato da Città del Sole, andrebbe respirato. Come quei venti leggeri,
odorosi di profumi lievi e intensi che, conosciuti o ignoti che siano,
vivificano corpo e spirito e risuonano di misteriosi, profondi richiami nel
nucleo più profondo dell’essere.
Alla figlia
diciasettenne che un giorno d’autunno le pone la domanda: “Mamma, il Buddha
sorride invece il Crocifisso rappresenta un uomo che soffre e muore torturato.
Non è tanto facile da accettare… perché per noi cristiani proprio la croce?,
Ida Nucera risponde con una sorta di lettera-meditazione sulla propria
esperienza di fede: “Rinunciando a certezze, a catechizzarti, ti offro ciò che
mi ha aiutato e continua a farlo lungo la strada. Esperienze, incontri, libri,
canzoni, film. Il Vangelo. Lo farò non perdendo di vista il ciondolo sorridente
del Buddha. (…) Siamo l’espressione mai statica delle esperienze e degli
incontri che facciamo. (…) È un orizzonte nuovo che si intreccia, senza
contraddizioni alla stella polare della mia vita: la vocazione cristiana…”
Non, quindi,
un saggio, o una riflessione sulle tradizioni religiose occidentali e
orientali, ma il racconto, intimo, sussurrato – da madre a figlia – del cammino
interiore dell’autrice, del suo intimo sentire: “Perché scrivere ad una figlia
per parlare della cosa più difficile al mondo, il mistero del credere, e non
solo, credere in un Dio che continua ad essere scandalo e follia? Se continua
ad esserlo, vuol dire che ‘tira’ ancora, come dite voi giovani, questo Gesù
crocifisso, che dal legno della croce pare stia sorridendo. Potrò darti qualche
risposta? Non credo che possa funzionare se incarto i pensieri. Devo lasciarli
liberi di muovere, i tuoi, in modo che possano farti provare un accenno di
desiderio a volare più in alto di dove la tua età ti porti. Forse dovrei
rivolgerti un pensiero semplice, chiaro e convincente. Non sarà niente di tutto
questo. L’esperienza di un incontro che cambia la vita non è in contrasto con
un cuore che non cessa di cercare ed anche dubitare.”
Il racconto
procede per frammenti – “È solo un’inquadratura quella che ti fornisco, per
avere una visione d’insieme ci vorrebbero anni di ricerca e lavoro, ma è qui ed
ora, prima che tu spicchi il volo per altre mete, che voglio starti accanto,
donando quel poco che so dirti di quel tanto ricevuto in regalo” – restituendo
al lettore alcuni dei padri e, soprattutto, delle madri che hanno accompagnato
l’autrice nel suo cammino. Tra i tanti, i padri gesuiti da lei conosciuti a
Reggio, sant’Ignazio e san Francesco Saverio, papa Bergoglio, don Lorenzo
Milani, il vescovo Bregantini, Guglielma Boema, Teresa d’Avila, Teresa di
Lisieux, Etty Hillesum, Simone Weil, suor Mirella, eremita in Calabria.
Maestri di
contemplazione e preghiera, ovvero di colloquio aperto con l’Altro nella libera
apertura del cuore, e, nello stesso tempo, maestri/e di vita pratica perché “la
fede dell’uomo non può essere separata dalla sua carne, sta per sempre agli
‘incroci della storia’, dove uomini e donne soffrono e restano appesi alla
croce dell’ingiustizia.”
Ne
conseguono non solo la cura dell’interiorità – l’andare con coraggio sempre più
dentro se stessi – ma anche precise scelte di campo: dallo schierarsi a favore
degli immigrati – considerando la loro presenza come un grande segno di
speranza – alla passione nei confronti della città.
Non per
nulla un intero capitolo è dedicato all’incendio del Museo dello Strumento
musicale di Reggio: “La fede non è tale se ignoriamo la realtà nella quale si
vive, se qualcosa ci chiude dentro noi stessi. Se le coordinate dell’anima, le
verticali armoniosamente incrociate alle orizzontali della nostra umanità, non
ci spingono alle relazioni. L’ingiustizia ci provoca. Chiede un discernimento e
un’assunzione di responsabilità. (…) Reggio è ultima frontiera, avamposto del
nulla, non luogo dove si bruciano i centri sociali, le chiese ortodosse, i
musei. (…) È tanto il buio in questa nostra città e nel nostro Paese e ci vuole
molto coraggio per scorgerne la prima luce fioca. Ma sta proprio in questa
capacità di reazione profondamente non violenta, tanto da lasciare spiazzati,
la chiave per ricostruire musei, umanità, coscienze. Nel momento del massimo
sconforto, riuscire ad esprimere la gioia della condivisione e della festa.”
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