Dalle vetrate
sull’altare filtrava molta luce. La mattina s’era rimessa al meglio, forse, sul
tardi, avrebbe anche potuto dare una pulita al balcone di casa.
Lo sguardo
di Agnese tornò sulle mani del celebrante. Belle mani eleganti che il prete,
parlando, continuava a intrecciare sul petto: nerissime, sul bianco del camice,
parevano delle grandi farfalle danzanti. Aveva un bel tono di voce e parlava un
buon italiano, ma le sue parole le restavano estranee. Forse, la infastidivano.
Era una
sorta di panegirico della Vergine, in cui la sua immacolata concezione si confondeva
con l’annuncio dell’angelo a Maria e i toni mistici – Maria che, andando verso
la cugina Elisabetta, compiva la prima processione eucaristica della storia –
avevano un che di giustapposto.
Ma, forse,
era lei a interpretarlo male. Non le erano mai piaciute le festività mariane,
le era in fondo estraneo il culto alla Madonna e, nonostante ci si fosse
applicata più volte e in epoche diverse, mai il rosario era stato la sua
preghiera. Il Padre nostro le dava un
immediato senso di pace e pienezza, l’Ave
Maria le scivolava addosso.
Doveva esserci,
nella sua formazione – famiglia cattolica, nonne e madre col rosario sempre in
mano, anni dalle suore e lei stessa sempre praticante – materiale più che interessante
per un bravo psicologo. (Come il suo parrucchiere trovava esaltante acconciare
i suoi capelli sottili e fragili, restii ad ogni pettinatura).
Agnese non
aveva alcuna intenzione di consultarlo, ma si chiese se non fosse di caso di
esplorare quella parte di sé. Chissà che in quell’estraneità alla Vergine-Madre
– ma i versi di Dante la emozionavano fin nell’intimo – non si condensasse un
non so che di disagio. Nel suo essere donna, nel suo essere cattolica, o,
semplicemente, nel suo essere.
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