Concettina
si svegliò presto per la luce che filtrava dalle fessure della serranda. Già da
qualche giorno s’era accorta che non chiudeva bene, ma non l’aveva detto in
casa perché quello svegliarsi prima che mamma la chiamasse per la scuola era
stato come un regalo inatteso. Un bel po’ di minuti, tutti, solo per lei. Il
fatto che la pensassero ancora addormentata la faceva sentire più libera.
I suoi pensieri potevano vagare con una leggerezza che non sempre avvertiva. Anzi,
talvolta, aveva paura che dei suoi pensieri se ne accorgessero mamma, papà, i
nonni, gli insegnanti: tutti, insomma. Ora, aveva uno spazio segreto – la sua
stanzetta all’alba, quando tutti la credevano ancora dormiente – in cui poter
davvero pensare tutto quello che voleva.
Quella
mattina, poi, era ancora più contenta perché a scuola avrebbero fatto le prove
del coro; mercoledì c’erano quelle di flauto e giovedì e venerdì quelle del
presepe vivente. Sabato prima di Natale ci sarebbe stata una grande festa e lei
avrebbe fatto l’angelo. A poter scegliere, avrebbe fatto la Madonna, ma
Caterina era magra, cogli occhi azzurri e i capelli biondi e lei era castana d’occhi
e di capelli e non si poteva certo dire magra.
A
Concettina, il Natale piaceva. Le piaceva che la nonna avesse già preparato la pasta dei petrali – veramente era l’impasto, ma nonna parlava in dialetto. Le
piaceva che, con il suo aiuto, la mamma avesse addobbato l’albero e tirato
fuori il vecchio presepe. C’era qualche pecorella sberciata e qualche pastore
azzoppato, ma chi aveva lavorato la terracotta, ripeteva sempre la nonna che l’aveva
comprato un cinquantina d’anni prima, l’aveva fatto, e si vedeva ancora, con
tutti i sentimenti. Le piaceva il pacco di torroni che zio Pino, fratello di
nonno Giuseppe, avrebbe mandato dalla Sicilia e le piacevano i pranzi e le cene
con i nonni materni e paterni perché raccontavano cose antiche che, poi, lei
trascriveva in un quaderno dalla copertina blu – un giorno, le sarebbero serviti
per scrivere un romanzo sul suo paese. Ma la cosa che le piaceva di più era la
messa di mezzanotte. Ci andava con zia Teresa, sorella di suo padre, che
abitava a Napoli e, a Natale, tornava a casa col marito, i due figli, una
guantiera di roccocò e un piattone di struffoli.
Sua mamma e
zia Teresa non si erano mai state vicendevolmente simpatiche, ma s’erano sempre
sforzate di non farlo vedere e, a furia di mostrarsi gentili, alla fine s’erano
abituate l’una all’altra. Quello che aveva di bello zia Teresa era che andava
alla messa di mezzanotte, a piedi, e se la portava con lei.
Uscire di
casa, ancora caldi di cibo e di tombolate, dava i brividi, ma camminare, in quel
buio senza paura, la nuvoletta tiepida che, parlando, saliva dalle labbra agli
occhiali, riscaldava il cuore. E, tornare poi, dalla chiesa, fredda nonostante
le stufe, un po’ intontita dal sonno e dalle troppe letture, una luna grande
avvolta in nubi bianche come in uno scialle, dava un senso di libertà che
neppure un uccello nel cielo più azzurro.
Nella folla
della processione che portava il Bambino benedetto alla capanna sulla spiaggia, con l'Etna innevata all'orizzonte,
dove l’aspettavano le statue di Maria e Giuseppe, del bue e dell’asinello, si
sentiva protetta e felice. E poteva pure pensare al suo segreto, liberamente.
Lei, da
grande, voleva fare la scrittrice. Ma, ancora di più, voleva diventare santa.
Non l’avrebbe confidato alla maestra Carmela (che, sul primo segreto, aveva
commentato: “Brava, brava, magari vincerai anche il Nobel”) e neppure a
Giacomina, la sua amica migliore, né, tantomeno, a nessuno di casa. Ma, dopo
aver trovato in casa, un vecchio libro dai disegni vividi, che raccontava le
vite dei primi martiri e santi cristiani, tornava spesso a leggerlo. E, anche
se molte cose le sembravano troppo strane, le batteva forte il cuore e niente
le pareva poter essere più avventuroso ed eroico.
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