giovedì 29 dicembre 2016

Racconto: Struffoli e crespelle 'a vento







A cinquantadue anni, il barone Federico De Falzea prese moglie. La seconda. La prima, ricca, lamentosa e brutta, gli aveva lasciato tre figli e proprietà bastevoli per alcune generazioni. Per qualche mese, s’era goduto in pace la sua buona sorte, ma presto il rinnovato fremito di gioventù per quella sì opportuna morte s’era preso gioco di lui.

S’era invaghito della giovane figlia del marchese De Lieto e, non volendo sprecare denari ed energie in avventure che, invece di fargliela dimenticare, gliel’avrebbero conficcata nelle carni, s’era risolto a chiederla in moglie, felicemente esaudito dal marchese e dalla di lui consorte. Gelsomina, che del fiore portava sulla pelle il sontuoso candore e il profumo inebriante, non era bene da poter lasciare solo in villa e quando il barone dovette partire per l’estrema Calabria a trattare in privato certi affari col fratello minore, la portò con sé.

La casa del barone Ferdinando stava sulla strada che scorreva lungo la spiaggia. A piano terra, c’erano i magazzini e la cucina e, più discosta, la stalla dei cavalli e delle mucche. Al piano superiore, le camere da letto si aprivano tutte su un ampio terrazzino. Di notte, a Gelsomina pareva di dormire dentro il mare, come fosse una conchiglia. All’alba s’affacciava per guardare l’orizzonte: sull’uniforme grigio-azzurro, mano mano cominciavano a chiarirsi i contorni delle montagne sicule, fino all’apparire dell’Etna che rifletteva sulle acque tutti i colori del mondo. Era metà gennaio e la temperatura era mite. Le piaceva stare lì. Non c’erano visite da scambiare né qualche rinfresco pomeridiano di cui chiacchierare per giorni. Ma ogni cosa le pareva nuova e bella. Il barone Ferdinando era un massaro, attento alle sue terre. Usciva alle prime ore del mattino e non si vedeva che a pranzo. Aveva una passione per le api e nel magazzino, tra le giare dell’olio e quelle del grano, il suo sguardo si posava con compiacimento su un alto salaturi colmo di miele. Giovannina, sua moglie – che aveva poco più di trentanni, i capelli non più del tutto neri raccolti a tuppo sulla nuca, gli occhi vivi e quieti – sovraintendeva a tutti i lavori di casa e non era raro trovarla nel pollaio a raccogliere le uova, che riservava ai cinque figli. I grandi mangiavano cicerchia e legumi spezzati e, nei giorni di festa, anche qualche fetta di melanzana seccata in estate e ora arrostita.

Se di tutto si occupava personalmente, in tutto donna Giovannina si faceva aiutare da Minichina, che, vedova del precedente fattore, il barone s’era convinto a ricoverare con le due figlie in una delle baracche vicino alla stalla. Facevano da cuoche, cameriere, inservienti, aiutanti nei campi, cucitrici, secondo le necessità dei giorni. A Gelsomina, fin dalla prima sera, Giovannina aveva mandato Mariuzza, che per anni – ne aveva quindici – e per garbo poteva essere più gradita alla giovane cognata. A Gelsomina non parve vero che a intrecciarle i capelli e a toglierle gli stivaletti fosse una ragazza quasi della sua età, con cui passeggiare a mare, nella conca tra l’albero di brucare e il grande pioppo, ridendo di niente, nella controra, quando il marito stava col fratello, la cognata si dedicava al rammendo e tutto in lei chiedeva sabbia e sole.

Quando tornarono a Napoli, Mariuzza li seguì. Gelsomina lo chiese per mostrare che il marito nulla le negava. Il barone Federico lo concesse perché la moglie era con lui più compiacente di quanto mai avesse sperato. Minichina sistemò così una figlia e, con un po’ di suo lavoro in più, non sarebbe stata una grave perdita per donna Giovannina. Nessuno si preoccupò di sapere cose ne pensasse Mariuzza, che si sentì morire a lasciare quel suo pezzo di mare. E pure Cicciu, il figlio del nuovo fattore, si sentì derubato di qualcuna che gli apparteneva.

A Napoli, Mariuzza finì in cucina e solo di tanto in tanto Gelsomina la chiamava per farsi pettinare, o stringere il busto o incipriarsi il naso. “Oggi – disse un giorno – ho voglia di miele, ma a mangiarlo col pane mi viene nausea”. “Se volete, vi faccio io una bella cosa”, sorrise Mariuzza. Tornò un’ora dopo con un piatto pieno di pignolata. Donna Gelsomina assaggiò incerta, continuò spedita e finì con l’ordinare che si mettesse nell’elenco dei dolci per gli ospiti di riguardo. “Ma devi farlo più colorato e allegro: una festa anche per gli occhi”. 

Fu contenta, donna Gelsomina, quando contesse e baronesse si complimentarono dell’invenzione delle sue cuoche e, magnanima, mandò Mariuzza a riferir la ricetta nelle cucine amiche, sì che, nelle visite natalizie, ci fu un gareggiare di piramidi barocche. Una sera, si degnò d’assaggiare anche il conte De Gattis, smemorato dagli anni, ma colmo di libri conservati nella mente. Ogni pallina, disse, sembra uno strongoulus. Nessuno capì, ma tutti dissero di sì, che erano proprio degli struffoli.

Un mese dopo o poco più, tornando dall’ultima festa carnevalizia prima della sua, donna Gelsomina fece chiamare Mariuzza e, col tono da grande che prendeva con la servitù, le ordinò di provare una novità che, di nuovo, facesse, del suo, il primo salotto della città. Era notte e Mariuzza, che aveva, quel giorno, sfregato tutti i ripiani e tutte le stoviglie, sentiva mani stanche e mente vuota. Non tornò a letto. Scese in cucina, si sedette, la testa appoggiata sulle braccia ripiegate ad un angolo del tavolo ad ascoltare il vento che fischiava a finestre e porte chiuse. Si lasciò riempire della risacca del mare quando pareva entrare nella baracca della sua infanzia, fino a che il grumo del cuore s’allentò. Poi prese farina e uova e li mescolò, come per fare la pignolata, ma aggiungendo un po’ di sugna. L’impasto le venne duro, lo ammorbidì appena con un bicchierino d’anice, tirò la sfoglia, fece tante striscioline e le buttò mano mano nell’olio bollente; ricoprì di polvere di zucchero e assaggiò.

Le signore – che, labbruzza a cuore, mangiavano a quattro palmenti – si degnarono di commentare che una chiacchiera dopo l’altra, magari con la cioccolata calda, rendeva un po’ meno pesante il difficile loro compito di conversare per ore. Mariuzza non ebbe mai modo di dire che, quelle, erano le crispedde ‘a ventu, che donna Giovannina preparava una volta l’anno. Soffici e gonfie, impalpabili come la brezza leggera dell’alba che carezzava l’azzurro Mongibello il lieve tremolare delle onde nei tramonti quieti sul mare che lei non avrebbe più rivisto.




 Questo racconto è stato pubblicato si Zoomsud nel gennaio 2012

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