A cinquantadue anni, il barone Federico De Falzea
prese moglie. La seconda. La prima, ricca, lamentosa e brutta, gli aveva
lasciato tre figli e proprietà bastevoli per alcune generazioni. Per qualche
mese, s’era goduto in pace la sua buona sorte, ma presto il rinnovato fremito
di gioventù per quella sì opportuna morte s’era preso gioco di lui.
S’era invaghito della giovane figlia del marchese
De Lieto e, non volendo sprecare denari ed energie in avventure che, invece di
fargliela dimenticare, gliel’avrebbero conficcata nelle carni, s’era risolto a
chiederla in moglie, felicemente esaudito dal marchese e dalla di lui consorte.
Gelsomina, che del fiore portava sulla pelle il sontuoso candore e il profumo
inebriante, non era bene da poter lasciare solo in villa e quando il barone
dovette partire per l’estrema Calabria a trattare in privato certi affari col
fratello minore, la portò con sé.
La casa del barone Ferdinando stava sulla strada
che scorreva lungo la spiaggia. A piano terra, c’erano i magazzini e la cucina
e, più discosta, la stalla dei cavalli e delle mucche. Al piano superiore, le
camere da letto si aprivano tutte su un ampio terrazzino. Di notte, a Gelsomina
pareva di dormire dentro il mare, come fosse una conchiglia. All’alba
s’affacciava per guardare l’orizzonte: sull’uniforme grigio-azzurro, mano mano
cominciavano a chiarirsi i contorni delle montagne sicule, fino all’apparire
dell’Etna che rifletteva sulle acque tutti i colori del mondo. Era metà gennaio
e la temperatura era mite. Le piaceva stare lì. Non c’erano visite da scambiare
né qualche rinfresco pomeridiano di cui chiacchierare per giorni. Ma ogni cosa
le pareva nuova e bella. Il barone Ferdinando era un massaro, attento alle sue
terre. Usciva alle prime ore del mattino e non si vedeva che a pranzo. Aveva
una passione per le api e nel magazzino, tra le giare dell’olio e quelle del
grano, il suo sguardo si posava con compiacimento su un alto salaturi colmo di
miele. Giovannina, sua moglie – che aveva poco più di trentanni, i capelli non
più del tutto neri raccolti a tuppo sulla nuca, gli occhi vivi e quieti –
sovraintendeva a tutti i lavori di casa e non era raro trovarla nel pollaio a
raccogliere le uova, che riservava ai cinque figli. I grandi mangiavano
cicerchia e legumi spezzati e, nei giorni di festa, anche qualche fetta di
melanzana seccata in estate e ora arrostita.
Se di tutto si occupava personalmente, in tutto
donna Giovannina si faceva aiutare da Minichina, che, vedova del precedente
fattore, il barone s’era convinto a ricoverare con le due figlie in una delle
baracche vicino alla stalla. Facevano da cuoche, cameriere, inservienti,
aiutanti nei campi, cucitrici, secondo le necessità dei giorni. A Gelsomina,
fin dalla prima sera, Giovannina aveva mandato Mariuzza, che per anni – ne aveva
quindici – e per garbo poteva essere più gradita alla giovane cognata. A
Gelsomina non parve vero che a intrecciarle i capelli e a toglierle gli
stivaletti fosse una ragazza quasi della sua età, con cui passeggiare a mare,
nella conca tra l’albero di brucare e il grande pioppo, ridendo di niente,
nella controra, quando il marito stava col fratello, la cognata si dedicava al
rammendo e tutto in lei chiedeva sabbia e sole.
Quando tornarono a Napoli, Mariuzza li seguì.
Gelsomina lo chiese per mostrare che il marito nulla le negava. Il barone
Federico lo concesse perché la moglie era con lui più compiacente di quanto mai
avesse sperato. Minichina sistemò così una figlia e, con un po’ di suo lavoro
in più, non sarebbe stata una grave perdita per donna Giovannina. Nessuno si
preoccupò di sapere cose ne pensasse Mariuzza, che si sentì morire a lasciare
quel suo pezzo di mare. E pure Cicciu, il figlio del nuovo fattore, si sentì
derubato di qualcuna che gli apparteneva.
A Napoli, Mariuzza finì in cucina e solo di tanto
in tanto Gelsomina la chiamava per farsi pettinare, o stringere il busto o
incipriarsi il naso. “Oggi – disse un giorno – ho voglia di miele, ma a
mangiarlo col pane mi viene nausea”. “Se volete, vi faccio io una bella cosa”,
sorrise Mariuzza. Tornò un’ora dopo con un piatto pieno di pignolata. Donna
Gelsomina assaggiò incerta, continuò spedita e finì con l’ordinare che si
mettesse nell’elenco dei dolci per gli ospiti di riguardo. “Ma devi farlo più
colorato e allegro: una festa anche per gli occhi”.
Fu contenta, donna Gelsomina, quando contesse e
baronesse si complimentarono dell’invenzione delle sue cuoche e, magnanima,
mandò Mariuzza a riferir la ricetta nelle cucine amiche, sì che, nelle visite
natalizie, ci fu un gareggiare di piramidi barocche. Una sera, si degnò
d’assaggiare anche il conte De Gattis, smemorato dagli anni, ma colmo di libri
conservati nella mente. Ogni pallina, disse, sembra uno strongoulus. Nessuno capì, ma tutti dissero di sì, che erano
proprio degli struffoli.
Un mese dopo o poco più, tornando dall’ultima
festa carnevalizia prima della sua, donna Gelsomina fece chiamare Mariuzza e,
col tono da grande che prendeva con la servitù, le ordinò di provare una novità
che, di nuovo, facesse, del suo, il primo salotto della città. Era notte e Mariuzza,
che aveva, quel giorno, sfregato tutti i ripiani e tutte le stoviglie, sentiva
mani stanche e mente vuota. Non tornò a letto. Scese in cucina, si sedette, la
testa appoggiata sulle braccia ripiegate ad un angolo del tavolo ad ascoltare
il vento che fischiava a finestre e porte chiuse. Si lasciò riempire della
risacca del mare quando pareva entrare nella baracca della sua infanzia, fino a
che il grumo del cuore s’allentò. Poi prese farina e uova e li mescolò, come per
fare la pignolata, ma aggiungendo un po’ di sugna. L’impasto le venne duro, lo
ammorbidì appena con un bicchierino d’anice, tirò la sfoglia, fece tante
striscioline e le buttò mano mano nell’olio bollente; ricoprì di polvere di
zucchero e assaggiò.
Le signore – che, labbruzza a cuore, mangiavano a
quattro palmenti – si degnarono di commentare che una chiacchiera dopo l’altra, magari con la cioccolata calda, rendeva
un po’ meno pesante il difficile loro compito di conversare per ore. Mariuzza non ebbe mai modo di dire che, quelle,
erano le crispedde ‘a ventu, che
donna Giovannina preparava una volta l’anno. Soffici e gonfie, impalpabili come
la brezza leggera dell’alba che carezzava l’azzurro Mongibello il lieve
tremolare delle onde nei tramonti quieti sul mare che lei non avrebbe più
rivisto.
Questo racconto è stato pubblicato si Zoomsud nel gennaio 2012
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