Che non avesse una bella voce, Anna lo
sapeva da sempre. Il bollino, però, gliel’avevano messo alle elementari.
A quel tempo, frequentava un istituto di
monache al centro della città. A destra e a sinistra delle grandi scale
d’ingresso, c’erano due cortili dove si faceva ginnastica e le aule ampie e
pulite si aprivano tutte su un lungo corridoio luminoso.
Un giorno, la suora portinaia che fungeva
anche da maestra di musica, si presentò in aula, insieme ad una suora più giovane:
cercavano due o tre bambine per classe da inserire nel grande coro che avrebbe
aperto la festa per il centenario della madre fondatrice.
Suor Tommasina, nei tratti e nei modi,
aveva molto più a che fare con la portineria di un condominio popolare che con
l’incorporea bellezza delle note. La pelle d’un olivastro malsano, i baffetti
sulle labbra informi, il corpo tozzo e i movimenti sgraziati – anche il tono della
voce ruvido, senza affetto – incuteva freddo e distanza.
Scelse Anna e Giuseppina, la sua compagna
di banco. Una bionda e l’altra bruna; una magra, l’altra grassottella, tutt’e
due sorridenti: una bella coppia.
Entrambe tentarono di dire che non
sapevano cantare. Vennero zittite con un perentorio cenno della testa che
ordinò loro di seguirle immantinente nella sala grande, quella attaccata alla
cucina.
Per due settimane, ogni giorno, dalle
dieci alle undici, Anna e Giuseppina lasciarono la loro aula e passarono un’ora
nella sala grande, muovendo le labbra, senza emettere un suono, seguendo i
cenni della suora aiutante.
Suor Grazia era dolce e a lei avrebbero
voluto dire la verità, se non fosse che suor Tommasina, le mani intrecciate
sullo stomaco, restava tutto il tempo di guardia come un cane arrabbiato.
L’ultima settimana di prove, le ore di
canto diventarono due. E, un giorno, successe.
Per stanchezza o perché ormai si sentivano
quasi al sicuro – pochi giorni ancora e la malia del coro sarebbe finita –
quasi all’unisono Anna e Giuseppina si scordarono di fingere e aprirono davvero
le loro piccole bocche.
Suor Tommasina urlò, le riempì di
improperi, le prese entrambe da una spalla e. schiumante di rabbia, le rimandò
nella loro aula.
Anna e Giuseppina non sapevano se sentirsi
più umiliate dal loro attimo di dimenticanza, spaventate/arrabbiate per le urla
di suor Tommasina (da quel momento la chiamarono suor Tommasa: non c’era
diminutivo che potesse ingentilirla), o risollevate per la fine di quell’imbroglio
che nessuna delle due aveva voluto.
L’incidente – a parte le risate, da
grandi, nel ricordarlo – non aveva avuto particolari effetti.
Giuseppina, di lavoro, curava eventi e
spettacoli, di cui molti a base di musica e canti.
Quanto ad Anna, le bastava canticchiare in
galleria o nella salita tutte curve che la portava al lavoro: quand’era felice
e quando bisognava acquietare un cuore troppo veloce. E in chiesa: tanto lì, la
sua voce si confondeva con le altre e, a meno di starle molto vicino, nessuno s’accorgeva
ch’era proprio stonata.
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