Non ho perso neppure un
minuto delle dieci ore di The Young Pope
di Paolo Sorrentino.
Concentrata soprattutto
su alcuni episodi, ma con linee di fondo che continuano a ripercuotersi di
puntata in puntata dandole una sostanziale, anche se non completa, unità, la
serie è certamente tra le più belle e interessanti mai prodotte. Una sigla da
applausi, una fotografia eccezionale, musiche adeguate, un attore protagonista
perfetto e attori comprimari bravissimi, alcune figure indimenticabili, a
cominciare dal cardinale Voiello interpretato da Silvio Orlando (la sua
apparizione in maglietta e calzoncini del Napoli è da cineteca) e così via
elencando per ogni aspetto tecnico-spettacolare.
Non ho capito alcuni
riferimenti, altri li ho trovati infastidenti, ma, nel suo complesso, la serie
mi è sembrata avere un valore spirituale raro nelle attuali messe in scena
cinematografiche.
Porta, infatti, al
centro, Dio: e pone – e fa porre allo spettatore consapevole – domande sulla
fede e, in particolare, sulla sua comunicabilità in un mondo desacralizzato.
Come ha scritto Gennaro
Mattino su La Repubblica «ciò che emerge è se sia ancora
possibile annunciare Dio all’uomo di oggi. La corte papale, la curia con le sue
contraddizioni restano sullo sfondo, benché facciano da palcoscenico della
narrazione, per dare spazio a dialoghi suggestivi, per lo più monologhi propri
di chi cerca faticosamente risposte dentro di sé, di chi è ancora interessato
alle questioni ultime sull’esistenza, sul suo fine e il suo perché oltre la
storia. Sorrentino sceglie come suo
primo interlocutore un papa giovane ma già vecchio, uomo di potere, presuntuoso
e debole di affetto, bello ma fragile di poesia, come la nostra epoca, un vicario
di Cristo vestito di inquietudine, un uomo di Dio che più degli altri dovrebbe
conoscerlo, ma che più degli altri è provocato dal dubbio, un uomo che va oltre
il personaggio, icona di un tempo in cui domina l’immagine su tutto, ma dove in
assoluto vince la decadenza. Anche
nella Chiesa, ma oltre le sue mura, uguale e peggio, si staglia il potere della
mediocrità afflitta dal bisogno di uscire dall’anonimato con ogni mezzo e a
ogni costo. Sorrentino risponde alle domande sul senso della vita, sulla storia,
sul perché delle ingiustizie, del dolore, della sofferenza mettendo sulla bocca
del papa parole che dovrebbero essere dell’uomo pioniere di senso, parole che
furono dei grandi medioevali che, tra eresie e dogma, tra roghi e
canonizzazioni, resero possibile la nascita della libertà di parola, di quelle
grandi idee che fecero nuova l’Europa e il mondo. È un papa che ritorna a parlare di Dio e lo fa con la sofferenza
della ricerca, con i chiaroscuri della psicanalisi, con la volontà di non
mortificare l’intelligenza e permettere all’uomo comunque di restare uomo, non
fantoccio, non caricatura, sempre in piedi senza servilismo, senza
infantilismi, senza sovrastrutture mitiche e superstiziose. Dov’ è Dio, dove la
sua misericordia, ma dove sta andando l’uomo, le domande di sempre ma la novità
sta proprio nel rimettere al centro del mondo e del suo destino quella ricerca
spirituale e intellettuale senza la quale, oltre la risposta e benché la
diversa risposta, il destino del mondo è condannato alla barbarie. Domande che fanno paura, che non fanno
audience, ma grazie all’invenzione di un genio della cinepresa possono di nuovo
interessare il grande pubblico. Ci vuole coraggio nello spodestare il parlare
facile e vantaggioso di una Chiesa semplice agenzia caritativa, interessante
solo se fa il bene e non dice il perché, che si sporca le mani per i poveri e
spesso tradisce, ma non si capisce la sua scelta. Perché in verità parlare di
Dio e di fine ultimo, cercare l’uomo pensante, forse non conviene neppure alla Chiesa,
non fa audience e non procaccia clienti. (…) Sorrentino mette in scena Dio, lo
afferma, lo nega, lo cerca, lo rifiuta, lo invoca, lo bestemmia, ma Dio rimane
il protagonista e con Lui l’uomo e le sue domande.»
Ps. Mi sono più volte chiesta il
senso del tanto insistere sull’essere orfano del papa (e di altri protagonisti
della serie), ovvero di persone che, professando una religione che ha come
preghiera fondamentale il Padre Nostro, non dovrebbero viversi, anche se privi
dei genitori, come davvero orfani. Ma
rimando ad eventuale altro post le mie considerazioni in merito.
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