«Se si considerano tutti questi possibili confini, la
differenza tra un uomo e l’altro appare a Richard davvero irrilevante, e
chissà, forse non c’è alcun fossato che si spalanca qui, d’improvviso,
all’ingresso di un Centro berlinese per richiedenti asilo, e forse a questo
livello dell’universo non ci sono differenze e non ci sono nemmeno le due metà,
perché alla fin fine si tratta solo di qualche pigmento in quel materiale che
tutti gli uomini, ciascuno nella propria lingua, chiamano pelle, e allora la violenza che giusto qui si manifesta non sarebbe
affatto premonitrice di una tempesta che si sta scatenando nel centro di un
universo, ma nascerebbe solo da un equivoco assurdo, che spacca in due
l’umanità e le impedisce di capire quanto il respiro di un qualsiasi essere
umano. Che si indossino pantaloni e giacca facenti parte di una raccolta
d’indumenti usati, un pullover di marca, un vestito costoso o uno a buon
mercato oppure una divisa con tanto di casco e visiera, sotto gli abiti alla fine
siamo sempre nudi, magari – ben che vada – qualche volta ci capiterà di essere
stati felici per il sole o per il vento, per la neve o per l’acqua, perché
abbiamo mangiato o bevuto qualcosa di buono, perché abbiamo amato qualcuno e ne
siamo stati riamati, prima di morire. Ciò che nel mondo cresce e scorre è di
gran lunga sufficiente per tutti, eppure – come Richard deduce dalla presenza
delle venti camionette – quella che ha luogo lì è, a quanto pare, una lotta per
la sopravvivenza. La polizia qui s’impegnerebbe dunque a favore di quei
tedeschi talmente poveri che, per festeggiare, possono mettere in tavola solo
oche arrosto rubate? Probabilmente no, pensa Richard, perché altrimenti, già da
un pezzo, avrebbe dovuto vedere davanti a questa o quell’altra filiale di una
banca 20 camionette della polizia e poliziotti armati di tutto punto, che
stanno portando fuori i manager colpevoli di malversazione per somme
miliardarie. Sì, pensa, quello che accade qui, ricorda il teatro, e teatro lo è
davvero – un fronte finto, che ne nasconde un altro, quello che esiste nella
realtà. Al segnale convenuto il pubblico reclama le vittime e, al segnale
convenuto, i gladiatori portano la loro vita reale nell’arena. Ci si era già
dimenticati, e proprio a Berlino, che un confine non si commisurava solo sul
formato dell’avversario, ma creava questo stesso avversario? …»
Nato dalla sua personale esperienza di incontro con
alcuni immigrati africani in Germania, Voci
del verbo andare di Jenny Erpenbeck, pubblicato in Italia da Sellerio, con
la traduzione di Ada Vigliani, è un insieme di indagine giornalistica, saggio,
romanzo.
Richard, professore
emerito di filologia classica – che, dopo la morte della moglie, vive solo, in
quella che, nella sua gioventù, era la parte di Berlino appartenente alla
Germania est – si trova casualmente ad assistere alle manifestazioni degli
immigrati in Oranienplatz. Abituato allo studio e alla ricerca, decide di
incontrarli per porre loro delle domande: una sorta di sondaggio per capire da
dove vengono, cosa vogliono.
Ne deriva un rapporto
forte, in cui scopre le vite di un gruppo di uomini, arrivati in Germania nel
2013, dopo essere sbarcati a Lampedusa: il loro passato, carico di dolore
(guerra, fame, l’approdo in Italia con i barconi della morte, il trasferimento
in Germania), un presente inutile, senza
affetti e senza lavoro, e un futuro troppo incerto per poterlo anche solo immaginare.
Imparano l’infinito, il passato e il participio passato dei verbi tedeschi, le
tre forme indispensabili per formare i vari tempi, le
ripetono decine di volte, seguendo l’insegnante l’etiope, per il verbo andare
gehen,
ging, gegangen, ma sono come imprigionati in un solo tempo vuoto e immobile.
Nel confronto, Richard
misura la sua ignoranza (non sa dove si trovano i paesi di provenienza degli
uomini che interroga, quali le loro capitali) e la difficoltà di conoscere
davvero i suoi interlocutori. E, soprattutto, comprende che le risposte che le
singole vite di Rashid, Zair, Khail, Ali, Karon e di tutti gli altri esigono
non possono essere delegate alle istituzioni, chiuse negli arzigogoli delle
leggi e della burocrazia, ma vanno assunte personalmente. Si prende, quindi,
cura, di alcuni di loro, cosa che induce anche alcuni suoi familiari ed amici a
fare altrettanto. E, così facendo, cura anche se stesso, le ferite che lui
stesso si porta dentro.
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