Crepuscolo –
l’ultimo libro della trilogia di Kent Haruf ad arrivare in Italia edito da NN,
dopo Il canto della pianura e Benedizione
– (ri)porta il lettore ad Holt, immaginaria città del Colorado.
Nel grande vuoto della periferia americana, le piccole
vite di tanti personaggi, che scorrono l’una separata dalle altre, finiscono
con l’intrecciarsi e sono in molti, in maniera molto discreta e sobria, a darsi
una mano, per continuare a vivere, per dare alla vita dell’altro un po’ di
calore e di speranza.
Libro bellissimo, come i due precedentemente
tradotti in Italia, Crepuscolo lascia
il senso di quei tramonti che sembrano acquietare le ferite e contenere in sé
la certezza che, nonostante tutto, riapparirà un altro giorno, umile ma intenso
e con un pezzettino di azzurro da potersi scambiare: che il dolore e la
malvagità possono essere, in qualche modo, curati
e contenuti.
Due aspetti del libro mi lasciano particolarmente
incantata: la capacità di intrecciare storie che, all’inizio, sembrano quasi gettate
lì e lo stile delle descrizioni.
La prima riesce a immettere completamente il
lettore in un mondo di tante solitudini periferiche
(ma anche dei centri più
movimentati) che s’incontrano,
talvolta sforandosi appena, talvolta drammaticamente e, in qualche caso,
violentemente, talaltra facendosi buona compagnia. Isole che, senza nessun
orpello, si riconoscono come piccoli arcipelaghi.
Il secondo è davvero emozionante. Pagine in cui
l’autore racconta semplicemente, per esempio, che il tale o talaltro personaggio
si alza, apre una scatola di cibo, lo versa nel piatto, senza fare riferimento
alcuno ai suoi stati d’animo, e tu te le senti tutte dentro le sue emozioni,
tutte le sfumature della sua malinconia, del suo dolore, delle sue attese.
Della sua dignità di vivere, anche se non sa e neppure si chiede che senso
abbia la sua esistenza.
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