Due valloni, Fìlici primo e
Fìlici secondo – probabile segno che qui, nel passato, c’erano molte
piante di filicina, ovvero di felci selvatiche – che, dal
mare di Occhio che fa da setoso strascico all’Etna, risalgono verso le
colline terrazzate a ciò che, ancora oggi, resta di olivi e mandorli,
bergamotti e vigneti, olendri e fichi d’india, stoppie e inattesi fiorellini.
Fìlici (accento sulla prima i) è un luogo dell’anima.
***
Invecchiando, i
capelli di nonno Giovanni s’erano fatti tutti bianchi, ma dal suo sguardo
emanava ancora un senso di vigorosa autorità. Le ossa delle mani gli si erano
deformate e aveva il diabete: “Quand’ero giovane non potevo mangiare perché non
ce n’era e ora non posso mangiare lo stesso. Pane ‘i iurmanu (segale)
prima, pane ‘i iurmanu adesso”. Nonna Cilla si era rimpicciolita e il
suo volto era sempre più pieno di lentiggini. La casa era rimasta quella du
maru nonnu (il padre di nonno Giovanni) e anche le stalle, ma l’orto, le gebbie
(le vasche) con i banani e alcuni pollai dovevano essere smantellati per
costruire una casa nuova per loro e per il figlio più piccolo. I materassi
erano ormai tutti di lana e le pezzane, i copriletto colorati tessuti
al telaio, erano state sostituite, dopo l’alluvione del 53, da grigie coperte
militari. Il trappitu (frantoio) era chiuso perché nonno Giovanni non
coltivava ormai che pochi olivi e poco grano: non rendevano più. Aveva diviso
la proprietà tra i figli, ricordando quanto sudore costava la terra: “Le più
belle ‘mareme (qualità di mandorle), ci stanno ‘e Filici; era
di luglio che facevo l’armacera (il muretto) e per non perdere tempo
neppure ‘nu bumbulu (recipiente di terracotta) d’acqua andavo a
prendere e me ne stavo con un nozzulu ‘i liva (un nocciolo d’oliva)
dentro la bocca e, la sera, se c’erano, solo favi caliati (fave
abbrustolite) e un po’ d’acqua”.
Nonna Cilla continuava a lavorare in
campagna coltivando ortaggi, che poi andava a vendere a Reggio, a piazza
Carmine, caricandosi di sacchi pesanti come in gioventù. Allevava ancora polli
e galline, ché anche le uova permettevano di guadagnare qualche lira, filava
lana grezza per i calzettoni d’inverno e preparava provviste da una stagione
all’altra.
Una volta al mese saliva a Cataforio a fare le pulizie nella canonica di mio zio parroco e, diceva mio nonno, a spettegolare con le vecchie del paese. Le piaceva chiacchierare e il suo più grande divertimento era ritrovarsi nelle feste religiose con la banda, le bancarelle, la folla e il cinema in piazza con lo schermo fatto con un grande lenzuolo.
Da piccola dormivo spesso a casa dei miei nonni, su una specie di divano malformato‘u zaccunu, col materasso fatto ‘i scaffogli, (foglie di granturco), che facevano rumore ad ogni movimento. E nonna Cilla mi portava in campagna: un giorno l’asina mi afferrò dalla gonna e giocò a lungo con me come una palla da far rimbalzare: ed io piangevo lo spacco alla mia gonna nuova, alla moderna. Raccoglievamo insieme ‘a rangedda, (bergamotti ancora piccolissimi, caduti a terra per il vento) le mandorle e le uova nel pollaio. Andavamo insieme al mulino, dal seggiaru (che impagliava le sedie), dal bumbularu, (che lavorava la terracotta)a comprare bumbula e salaturi (contenitore per mettere sotto sale e sott’olio). Mi portava in chiesa, nei lunghi pomeriggi del Giovedì Santo, quando i germogli di grano, con i gigli e le margherite ornavano l’altare del Sepolcro, riempiendo l’aria – e l’anima – di un fresco profumo di vita nascente. E l’aiutavo a raccogliere nei cestini di vimini i petali da lanciare al Santissimo, il giorno della processione del Corpus Domini, quando il baldacchino si fermava davanti al piccolo altare preparato all’imbocco della rua (cortile).
Ormai grande, andavo a trovarli tutti i giorni, quasi sempre al tramonto. Salivo rapidamente un vallone, inoltrandomi appena verso la campagna dalle molteplici tonalità di verde. Poi, più lentamente, scendevo dall’altro, con le cicale che frinivano e in lontananza un belato di pecore.
Nell’uno e nell’altro qualche oleandro
rosa inframmezzava i bergamotti. La buganvillea e un grande salice
costeggiavano l’imbocco della Nazionale, dove le macchine passavano tra due
alte siepi di erba fetera (puzzolente). Passavo sotto il ponte della
ferrovia e scendevo a mare. Mi fermavo sotto la nonara del barone
Catizzone (Era la baronessa, al collo
un cameo sostenuto da un nastro di velluto nero, a regalarmi, quand’ero
piccola, le pigne ancora dure da far maturare al caldo, nella lana, fino a
farle diventare morbide tanto che la polpa bianco-avorio punteggiata di semi
neri si scioglieva in bocca come una delizia da dei) a vedere il primo lembo di
Ionio assumere sfumature rosa, verdi e viola.
Gesti e parole dei nonni sedimentavano nell’anima,
lentamente, mentre mi riempivo del respiro del mare, che si stendeva come uno
strascico di seta intorno all’Etna fiammeggiante.
Post già pubblicato nel mio precedente Blog, non più online il 12 agosto 2011
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