Pietà, pietà di me. Più volte, leggendo Eccomi, l’ultimo e più complesso libro di Safran Foer, ho
supplicato un po’ di pietà nei confronti di me stessa, volenterosa lettrice, sottoposta ad un racconto che, pur con molte variazioni di genere, è, costantemente, nelle
sue quasi settecento pagine, un dialogo e/ o un monologo in cui ogni parola
viene suddivisa non, con come si dice dei capelli, in quattro, ma in settanta
volte quattro.
L’affresco della borghesia
bianca, colta, newyorchese, di origine ebraica è imponente. Non manca nessuna
nevrosi, paura, meschinità. C’è la famiglia con i suoi legami forti e la sua
fragilità; la tecnologia capace di creare mondi virtuali equivalenti a quelli
reali; c’è l’ironia e il coraggio; c’è la fede e il tradimento; c’è la pornografia
e l’amore per i figli. C’è, addirittura, un terremoto in Israele da cui deriva
una guerra che coinvolge tutto il Medioriente e, naturalmente, anche gli ebrei
americani.
C’è troppo. E solo in alcune
parti il libro si solleva da un’affaticante (per il lettore) accumulo descrittivo per
farsi pagine intrise di letteratura e, come tali, capaci di riscattare come
bello anche ciò che è senza qualità.
Ma Eccomi è un testo pieno di frasi, pensieri, riflessioni che viene
voglia di sottolineare.
Per esempio, ciò che dice Deborah al
figlio Jacob e alla nuora Julia (che poi divorzieranno) al momento del loro
matrimonio, quando li invita ad essere fortemente uniti. Non, come si è soliti
ripetere, in salute e malattia, ma “nella
malattia e nella malattia. È questo che vi auguro. Non cercate e non
aspettatevi miracoli. Non più. E’ che non ci sono rimedi per le ferite che
feriscono di più. C’è solo la medicina di credere nel dolore dell’altro e di
esserci”.
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