Non credo che fatti come quello di Melito Porto
Salvo accadano solo in Calabria.
Ma non dubito che esso imponga in Calabria una
straordinaria presa di posizione sulla necessità - immediata e ineludibile - di una capillare azione anche
(ri)educativa di alcuni territori, abituati storicamente a non vedere e non
sentire, indifferenti e nello stesso tempo feroci, pronti a stigmatizzare le
vittime e a difendere i carnefici. Un'azione in cui la scuola e le parrocchie, unici presidi di legalità e di civiltà di alcuni luoghi, devono spendersi con tutte le energie che hanno e anche di più.
È chiaro che ognuna è una storia a sé, ma
potrebbe essere molto utile rileggere adesso una vicenda che questa di Melito richiama
fortemente. Questa è la mia recensione del 6 ottobre 2010, di Malanova di Cristina Zagaria.
“Raccolgo
tutte le conchiglie che trovo e prima di andare via le sotterro a riva, a una a
una nella sabbia bagnata. Sotterro la mia paura, la solitudine, la mia
verginità. Per ultimi infilo nella sabbia i miei sogni. E con le dita spingo
più in fondo possibile. Non voglio tenere niente. Così non posso perdere
niente”. Ci vuole una certa forza per affrontare la lettura di Malanova di
“Anna Maria Scarfò con Cristina Zagaria” (così in copertina), edito da Sperling
& Kupfer. Molto forte è, infatti, l’impatto con la violenza del contenuto,
proprio perché racchiuso nella forma composta ed elegante di una scrittura
limpida e sobria.
La tredicenne Anna Maria, nata e cresciuta a
San Martino di Taurianova – “Non immagino altro posto all’infuori di questo per
vivere e per morire. San Martino è un paese brutto. Lo dice sempre mia sorella.
A me, invece, piace. Ci sono le case basse, i campi di ulivi. I mandarini. C’è
la mia famiglia”. – viene abusata per tre anni da un gruppo di ragazzi del
paese: “Se li incontrate per strada non vi sembreranno niente di eccezionale.
Padri di famiglia. Lavoratori. Muli da lavoro. Perché hanno scelto me? Perché
hanno bisogno di me? Perché la casetta? Non lo so. A loro sembra una cosa
normale, dovuta. Non lo definirei un passatempo. Non solo. E’ un gioco tra di
loro, un segreto in un paese così piccolo dove tutti sanno tutto”. Lei non si
ribella: “Perché non voglio che raccontino a nessuno quello che facciamo.
Perché se non li faccio arrabbiare, se li accontento, loro manterranno il
segreto. Conviene a loro. Conviene a me. Se mi faccio una brutta nomea in paese
è finita”. Ma quando le chiedono di portare con sé la sorella – Anna ha ormai
sedici anni, la sorella tredici – la paura cede il posto al “cuore che chiede
spazio. Che ha ripreso a battere. Batte e chiede spazio. Lo sento nel petto che
preme”. Anna si rivolge ai carabinieri – “Uomini che mi salvano da altri
uomini. Non cedevo di poter più avere fiducia in un uomo. E invece loro, loro
sono diversi” – : “Non credo di avere un coraggio particolare. Una forza
speciale. Lo dovevo fare e lo faccio. Non provo odio né per me stessa né per
loro”. I vari gradi del processo si concludono con la condanna degli accusati,
ma Anna Maria paga lo stress rifiutando il corpo, di cui finalmente è tornata
in possesso, e ingrassando oltre misura: “Io il mio corpo non lo voglio più
vedere, sentire, toccare. Allora lo maltratto. Lo ignoro: Lo umilio ancora”. Il
paese le è contro e le minacce continue e insistenti tanto da costringerla alla
scorta: “… ora che dovrei essere libera, sono isolata, vivo chiusa in casa,
marchiata, condannata senza condanna. Ora che tutti sanno la verità è peggio.
E’ come se fossi io ad aver sbagliato. E allora, anche solo per un attimo, mi
chiedo: Cos’era meglio? La risposta è sempre la stessa e immediata: Meglio
questo, meglio ora. Sto male, sta male tutta la mia famiglia, ma meglio ora.
(…) Anche questa è paura, ma quella era una paura masticata nel silenzio, fra
la terra della campagna e la polvere dei tappetini delle loro auto. Contro la
paura di oggi invece posso lottare a viso aperto. Siamo ad armi pari, o quasi”.
Diventata malanova, brutta notizia e bestemmia per i compaesani, Anna Maria
Scarfò ritrova se stessa in una “formula di liberazione: ‘Io sono la Malanova
per chi ha abusato di me, perché non mi fermerò se non davanti alla verità. Io
sono la Malanova per chi non crede nella forza delle donne. Io sono la Malanova
per quelle madri e quelle mogli che difendono i loro mariti e i loro figli, per
timore, abitudine, ignoranza. Io sono la Malanova per chi nella mia terra ha
paura di denunciare, di rompere il silenzio, di cambiare. Io sono la Malanova
perché cerco l’amore”.
Dopo le prime pagine – “ Decidete se volete
continuare a sapere. Ma se cominciate, abbiate il coraggio di ascoltare fino in
fondo…” – avevo pensato di riporre il libro. L’ho letto in un’ora.
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