domenica 18 settembre 2016

La mostarda di Reggio


L’ultima vendemmia cui ho partecipato, lo scorso anno, nell’avellinese, dovetti firmare un modulo in cui dichiaravo di esserci a solo titolo amichevole. Mi sembrò una corretta forma di difesa nei confronti degli operai veri, e nello stesso tempo, mi stupii di dover dichiarare qualcosa che, nella mia mente, era così ovvio.
C’erano dei raccoglitori diciamo così professionali, e c’era un gruppetto di amici arrivati da varie parti a dare una mano all’amico che, da qualche anno, aveva impiantato un vigneto. Ogni amico si presentava con un ruoto di cibo da condividere a pranzo. Un lavoro come una festa, qualcosa che, consapevoli o meno, in tutti richiama(va) il banchetto paradisiaco.
La prima vendemmia, invece, ero in Calabria, in un paesello attaccato al mio ed ero abbastanza piccola da essere, insieme agli altri bambini, tra i fortunati che potevano schiacciare l’uva raccolta con i piedi. Una sorta di ballo estasiante, mezzi intontiti dall’odore del mosto, lo scalpiccio come una musica piena di vita, il liquido che scorreva in piccoli canali, gorgogliante come il cicaleccio intorno. E, prima e dopo, il pane di grano e il salame.
Ma quello che più ricordo delle vendemmie – m’è tornato in mente quando un amico, che vive anche lui fuori, mi ha detto che tornerà a Reggio per la vendemmia – sono i giorni successivi.
Quando la cucina di casa acquisiva un odore di vino intenso, quasi stordente. C’era da preparare il vino cotto, portando il mosto a bollitura e riducendolo ad un terzo, per poi utilizzarlo per i petrali, ma anche, nel caso, come sciroppo. E c’era da riempire piatti e piattini di mostarda, una crema di mosto, che niente ha a che fare con le mostarde del Nord. 
Il primissimo mosto veniva subito lavorato con la farina (o con la fecola), profumato di buccia di mandarino tagliuzzata, versato nei contenitori pronti ad essere portati in tavola e ricoperto di granella di mandorle. Aveva la consistenza d’una gelatina, un colore di rubino, un sapore e un odore che sapevano di bellezza. Quella delle piccole cose trasformate in ricchezza, nutrimento dei sensi e dell’anima.


Foto di Giuseppe Laganà

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