“… trascorrere la giornata accanto ai torni e alle presse, ieri come oggi, determini certo fatica e dolore, ma cooperi anche ad una specie di redenzione umana, a quell’unica, convincente forma di riscatto che per millenni la civiltà contadina non è stata in grado di assicurare e che invece l’industria ha favorito in soli cento anni”. Così Giuseppe Lupo sul Sole 24 ore, nel pezzo di oggi della sua interessantissima serie Lessico industriale.
Penso sia un concetto meritevole di approfondimento e discussione. Mi limito, per ora, a qualche piccola osservazione.
Nata e cresciuta nel profondo Sud, ho più esperienza di mondo contadino che di mondo operaio. Un mondo, quello contadino che ho esperito, cui legherei tre “qualificazioni”: una grande fatica, con sottesa “rassegnazione” perché il risultato dipende anche da fattori su cui non si può agire (l’eccesso di freddo, l’eccesso di caldo); una grande saggezza (dubito che, qualche poeta escluso, ci sia qualcuno più vicino al senso profondo della vita rispetto a un contadino sapiente); un grande, e disastroso, individualismo. Questo terzo, è l’elemento che ha più frenato il secondo, impedendo al primo di produrre maggiore benessere. I contadini che ho conosciuto hanno, appena potuto, mandato i figli a scuola, si sono costruiti una casetta, hanno, cioè, provato a realizzare il loro “riscatto sociale”, ma non sono neppure riusciti a pensare che avrebbero potuto unire gli sforzi, mettere insieme, per esempio in cooperative, i loro piccoli pezzi di terra, legare la produzione di bergamotti, agrumi e varie alla loro trasformazione industriale: creare ricchezza vera, dell’intera comunità.
La pandemia ha riportato all’evidenza la straordinaria importanza economico-sociale (anche) dell’agricoltura. C’è ancora tempo perché sia occasione di Più pieno riscatto “sociale” al Sud?
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