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Leggo un centinaio di libri l’anno.
Se triplicassi la lettura, ipotizzando che possa vivere ancora una decina d’anni,
mi resterebbero al massimo tremila libri da leggere.
Non ho più tempo da perdere. Quindi se un libro non mi interessa lo lascerò dopo poche pagine: legittima difesa di fronte a testi brutti e/o inutili e/o negativi (diciamolo, sì: esistono anche libri che fanno male, non è che leggere fa sempre bene), che ho parzialmente usato negli ultimi anni e di cui più rigorosamente mi avvarrò nel futuro.
Farò più fatica con i libri che trattano di Calabria. Negli anni ne ho letto di tutti i tipi, provando a valorizzare anche quelli che probabilmente non lo meritavano, ma negli ultimi mesi qualche critica a questo o quello me la sono concessa. Farò più fatica a non leggerli, dico. Ma, forse, riuscirò a parlare solo di quelli che mi sembreranno meritarlo davvero.
Mi auguro di trovare testi – anche piccoli, anche minimi – che riescano a dire la varietà e complessità di una terra che è più vicina al resto del paese e del mondo di quanto troppi pensano.
Ieri, Anna Barbaro, una ragazza del mio quartiere – periferia sud di Reggio – ha vinto una medaglia d’argento alle para-olimpiadi. Non intendo togliere merito a lei, tutt’altro. Ma nella felicità che ho provato per questa vittoria – la città, com’è giusto e ovvio, le farà festa – mi è sembrato di cogliere un’altra virgola del nostro essere “uguali” agli altri.
Raccontiamo il nostro passato con occhi nuovi e il presente nella sua molteplice stratificata complessità. Raccontiamoci, come calabresi, con il nostro essere, come tutti al mondo, uguali e diversi. Rendendo il nostro “particolare”, “universale”.
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