Sabato scorso (15
ottobre), il piccolo supermercato che frequento sfoggiava già i primi prodotti
dolciari inequivocabilmente natalizi. Nei giorni immediatamente precedenti non
c’ero stata e, quindi, non posso escludere che, già prima di metà ottobre – un
inizio d’ottobre, peraltro, a temperatura estremamente mite, con atmosfere più
vicine alle estive che alle invernali– sia partito il gran battage del comprate, comprate che, per Natale,
raggiunge i vertici più alti (e indigeribili) dell’anno.
Agli inizi della
pubblicità televisiva, Natale cominciava, lentamente, l’8 dicembre, mentre
nelle case si facevano albero e presepe: c’era una congruenza temporale tra l’attesa
religiosa (l’Avvento) e la preparazione commerciale della festa. Poi, la
pubblicità di panettoni e pandori è stata anticipata ai morti, con effetti
abbastanza stridenti tra la sobria compostezza che più si addice alle intime
memorie di quelle giornate e la posticcia allegria degli spot televisivi.
Adesso, le varianti, sempre più numerose degli stessi pandori e panettoni
arrivano a poche settimane dal ritorno al lavoro e non passerà più molto tempo
che ci verranno proposti a partire da Ferragosto.
Dice qualcuno che, in
fondo, per una sorta di nemesi storica, Natale è tornato ad essere, come in
origine, una festa pagana.
Ma, poiché la storia non
si ripete mai del tutto uguale, siamo precipitati dal festeggiamento per il
Sole invitto, venerato quale divinità – e che dubbio ci può essere che, per il
nostro pianeta, il sole è una divinità?
– all’ottundimento di una consumistica regressione infantile collettiva per la
quale mettere in bocca un pezzo di un certo dolce produrrebbe chissà che.
Fortuna che il nostro
sguardo è selettivo e, una volta visti certi scaffali del supermercato, ci può
ripassare davanti escludendoli dalla nostra visuale.
Ma, più fortunato, è chi,
nonostante tutto, continua a cercare il senso del Natale, quando nel buio più
fitto e freddo dell’inverno, la Luce si fa carne e il Verbo viene ad abitare insieme a noi.
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