Una sorella molto bella,
acclamata pianista, un uomo che l’adora. E una sorella squinternata, due figli
con due uomini diversi, lavoro precario, scrittrice con il conto in rosso. E
una madre e una zia abbastanza particolari e un padre che si è suicidato.
La prima sorella non fa che
tentare il suicidio, persa in un sofferente, invincibile sentimento di insensatezza
dell’esistere. La seconda, insieme alla madre, alla zia ed una varietà di altri
personaggi, cerca invano le cose giuste da dire e da fare perché la prima non
si uccida (ma, insieme, è combattuta se accettare la sua richiesta di portarla
a morire in una qualche clinica svizzera).
La morte attraversa tutte le
pagine de I miei piccoli dispiaceri, ma
l’effetto generale del libro di Miriam Toews è quello di una calda, affettuosa,
energia vitale.
Non nella fede (le due sorelle,
cresciute nella comunità mennonita se ne sono allontanate), né nella bellezza,
né nella cultura, né nei libri e neppure negli affetti sembra esserci
possibilità di salvezza, eppure qualcosa induce le tre donne “sopravvissute”,
nonna, madre e figlia a “rimanere in pista”: “Non ci state polemiche, né
discussioni. È tempo di unire le forze. Abbiamo perso la metà dei nostri
uomini, le scorte si assottigliano e l’inverno è vicino. Noi tre signore
vivremo in quella vecchia casa diroccata, quella che ho appena comprato, grazie
a Elf”.
Bella la scrittura, tersa,
limpida. E, nonostante quanto appena detto sull’impossibilità che i libri
salvino, si conferma la costatazione della seconda sorella, Yoli (e dell’autrice):
«Ognuno di noi ha in sé tutta questa tristezza, non sono solo io, e la
scrittura aiuta a organizzarla.»
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