«Che cosa farò, Bob? Non ho più
una famiglia.» «Sì che ce l’hai», rispose Bob. «Hai una moglie che ti odia. Tre
figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno
impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto pare
ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia.»
Leggo con notevole ritardo – è
stato pubblicato in Italia nel 2013 – I ragazzi Burgess. Ho molto amato il precedente volume della Strout e temevo
di rimanere delusa da questo nuovo libro. Che, al contrario, mi è piaciuto
molto e mi fatto addirittura chiedere se l’autrice non possa essere considerata
la maggiore scrittrice vivente.
Contrariamente a Olive
Kitteridge, il
romanzo ha una struttura del tutto tradizionale e, sebbene la tematica affronti
problematiche contemporanee (la convivenza post torri gemelle, nella provincia
americana, del Meine, degli americani con la comunità somalese), il suo centro è l’analisi
(antica) dei rapporti familiari.
Un gesto stupidamente sconsiderato di Zach costringe
due fratelli e una sorella (ovvero la madre di Zach e i suoi due fratelli) a
ri-incontrarsi. È l’occasione perché, via via, in una narrazione di
straordinaria eleganza, emerga come un trauma, avvenuto nella loro infanzia,
abbia sotterraneamente condotto le vite Jim, Bob e Susan e abbia inciso
profondamente in quella delle loro mogli, mariti, figli.
La famiglia, per quanto luogo e sede di incomprensioni, ferite e offese, resta per la Strout, il vincolo decisivo e ineliminabile di ciascuno. Ognuno, per l'autrice, è fortemente
condizionato da come è stato trattato da piccolo, ma, se muta la narrazione di
se stesso, ha ampi margini per modificare effettivamente la propria vita.
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