Immagine tratta dal Web |
“Quando leggo le recensioni dei libri quasi sempre – sottolineo ‘quasi’ – non ci capisco nulla (…) Perché non vi trovo nessuna critica. Non parlo di stroncature anche se qualche volta – con criterio e discernimento qualche stroncatura dovrebbe esserci – parlo proprio di critica, cioè di spiegazione del perché il libro per alcuni versi funziona, per altri, forse, no. Che cosa manca all’autore e all’autrice, che cosa c’è in romanzi o saggi che nel suo non c’è, se ci ha dato modo di riflettere e poi alla fine – la cosa più banale - se lo troviamo bello o brutto o mediocre. Dopo aver sfogliato le pagine culturali e gli inserti dei grandi quotidiani invece si ha l’impressione che i libri siano tutti belli. Ne sono disorientata.” In un post su Fb, Ritanna Armeni pone un problema che mi pongo anch’io, sia come lettrice che come persona che le recensioni, spesso, le scrive. Tralascio qui il mio ruolo di lettrice e dirò qualcosa sul ruolo di recensore. Recensisco non perché abbia competenze specifiche di critica letteraria, ma perché leggo tanto e mi piace sottolineare questo o quel libro. Anche se io stessa e il giornale online su cui talvolta appaiono le chiamiamo, per comodità di espressione – si usa così –, recensioni (termine che, forse, andrebbe lasciato a contributi più accademici) potrebbero essere più precisamente definite presentazioni: questo libro tratta di questi temi, è scritto così e così (intendo: con questo o quest’altro stile), è bello, è importante: una lettura, insomma, non da specialista, ma da amante dei libri. Non ho legami con case editrici né interessi privati, non critico nel senso di stroncare (piuttosto: non recensisco proprio), ho un occhio più benevolo per autori calabresi magari non di primissimo piano che pubblicano libri dignitosi. Quello che non tollero come lettrice (avida) di recensioni è il grido al capolavoro ad ogni più sospinto. Di Omero, Dante, Shakespeare non è che ne nascano tutti i giorni.
“Nella nostra mente, in quella del lettore e dello scrittore di oggi, coesistono nello stesso istante centinaia di migliaia di stimoli che vengono da luoghi e tempi lontanissimi, facce di sconosciuti che ci mostrano brandelli sceltissimi delle loro vite affollano la nostra testa giorno e notte, slogan e tweet sovraccaricano la nostra memoria e il nostro vocabolario, migliaia di notizie lambiscono la nostra attenzione, ci frammentano. Ciascuno di noi è un settemiliardesimo della popolazione mondiale, nessuno è più al centro di nulla, nessuno con sguardo letterario può abbracciare tutto ciò che è il nostro universo. È l’uomo che si ripiega su se stesso mentre il mondo si dilata e oscilla tra la tragedia climatica, bellica, in cui è impossibile immaginarsi eroi o antieroi universali (o almeno prodotti da un folto gruppo socialmente riconoscibile) perché si tratta di tragedie neanche davvero realizzate, ma solo raccontate ossessivamente dalla cronaca che ci perseguita, in una società che non è più stratificata secondo i criteri novecenteschi. Pare che tutti, oggi, ci sentiamo emarginati, e la sensazione è che le nostre versioni siano l’unico modo che abbiamo per fermare il tempo e lo spazio, per non essere inghiottiti. I nostri personaggi siamo noi, il mondo è la nostra minuscola e insignificante vita che diventa l’unico spazio di movimento possibile in un universo fuori controllo, sterminato e inesplorabile. E allo stesso modo si sente il lettore, cioè noi, sempre noi, che troviamo nell’intimità altrui (o presunta tale) un luogo dove sentirci al riparo, in cui immedesimarci, in cui riconoscere qualcosa che ci è familiare, e questo qualcosa, forse, sono le bugie che tutti ci raccontiamo per vivere ignari della nostra cicogna, sono le nostre ambiguità, le nostre ombre meschine, il nostro dolore privato; e poi, certo, vogliamo anche curiosare nelle miserie e nelle fortune altrui.”
Su Lucy di aprile è apparso un articolo di Irene Graziosi, Dimmi la verità: perché siamo ossessionati dall’autofiction?, * interessantissima analisi del perché il romanzo classico, quello basato sul vero è, oggi ampiamente sostituito dal romanzo di versione, in cui ciascuno racconta non una vicenda che si pone come universale, ma il proprio frammento di esperienza.
Nelle immagini, due romanzi candidati allo Strega 2023: un romanzo dal vero e uno che racconta la fortissima esperienza di Ada D'Adamo come madre di figlia disabile.
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