Il 18 luglio 1992, in seguito al bombardamento dell’orfanatrofio di Bjelave, un gruppo di bambini venne trasferito da Sarajevo in Italia. Alcuni erano effettivamente orfani, altri erano stati collocati nell’orfanatrofio per difficoltà economiche o per preservarli dagli orrori della guerra che stava insanguinando la Jugoslavia. I bambini sarebbero dovuti tornare presto in patria, ma 46 di loro non sono mai rientrati in Bosnia, essendo stati dati in affido e poi in adozione a famiglie italiane, nonostante alcuni avessero dei genitori biologici vivi.
È da questo fatto reale – portato anni fa alla luce dal sito BalcaniCaucaso – che prende spunto Rosella Postorino per il suo ultimo libro, Mi limitavo ad amare te, pubblicato da Feltrinelli.
Un libro sulla tragicità della guerra, la prima in Europa, dopo il secondo conflitto mondiale, che fa deflagrare palazzi e polverizza relazioni, annullando lunghe tradizioni di amichevole convivenza tra popolazioni di etnia e religione diverse e violentando la quotidiana normalità di adulti e bambini. Ma, ancora di più, un libro sui bambini: Omar, il più piccolo, che continuerà per anni e anni a credere che sua madre è viva e non si adatterà mai a diventare figlio di un’altra donna; Sen, suo fratello, che vuole mettersi alle spalle il suo passato e crescere come italiano; Danilo, che studierà legge, continuando il lavoro della, tormentata, madre giornalista; Nada, la ragazzina senza un anulare, che guarda in faccia la realtà, capace di amore verso il fratello Ivo e i compagni di viaggio in Italia Omar e Danilo, di dignitosa solitudine e accettazione della vita insieme senza fronzoli né illusioni ma dando speranza. (D’altra parte il suo nome, “niente” in spagnolo, in bosniaco vuol dire “speranza”).
Con loro attraversiamo la guerra, la lunga permanenza in un istituto di suore – che, per una volta nella attuale narrazione, non appaiono come fagotti con velo ma come persone dalla sfaccettata umanità, (la tenera suor Tormento, la dolce suor Nanetta) – il non semplice inserimento in famiglie affidatarie/adottive, la difficile ricerca, durata decenni, dei genitori biologici e al recupero di una più precisa identità.
Un racconto realistico e poetico, che riesce a legare i fatti della Storia con le storie dei singoli, centrato sui figli e sulle madri, sull’essere, tutti, ognuno con le sue caratteristiche, figli bisognosi di una madre che ama e che cura: una madre che non sempre si ha né sempre si ha come la si vorrebbe e che si dipana affrontando, senza edulcorazioni, le difficoltà di crescere in un ambiente e con persone che non sono quelle “di casa”, anche quando cura e attenzione si hanno ma sono irricevibili perché non provengono dagli affetti che si desiderano.
È un libro attraversato da sotterranee domande filosofiche-religiose, o più semplicemente “umane” sul senso della vita, sulla sua intrinseca tragicità: oltre ai drammi della storia, ognuno è come “gettato nel mondo”, espulso dal ventre caldo della madre, esposto alla solitudine, alla sconfitta, al tradimento (compreso il tradimento di se stessi, delle proprie attese, delle proprie promesse), alla difficoltà di amare ed essere amato come, in fondo al cuore, si desidera e senza un Dio che illumini il buio che bisogna attraversare.
Eppure, serpeggia la speranza proprio nell’accettare la vita, nel prendersi cura degli altri, nell’affrontare il dolore. Non c’è altra parola che “speranza” se chi non è mai stata figlia amata – e senza madre ha dovuto scalare l’impervia salita del crescere – riesce a diventare effettivamente madre del bambino che ha appena partorito, sentendo che la necessità che lui ha di lei non è maggiore del bisogno che lei ha di lui e vivendo questa necessità-bisogno con tenera libertà di spirito.
Candidato allo Strega, Mi limitavo ad amare te – libro della maturità artistica di Rosella Postorino, nata a Reggio Calabria, autrice, tra l’altro, di L’estate che perdemmo Dio su una famiglia calabrese costretta ad emigrare da Nacamarina in Altaitalia per sfuggire ad una guerra di ‘ndrangheta e già vincitrice del Campiello con Le assaggiatrici – è tra i superfavoriti del premio. Sarebbe la prima volta di un autore calabrese dopo Alvaro che vinse nel 1951 con Quasi una vita. Che a farlo sarebbe una donna, in una regione dove le scrittrici non mancano ma non sembrano fare particolare “rumore”, avrebbe un senso in più.
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«La città di R. si estendeva per qualche chilometro di costa, delimitata ad est da una serie di basse colline di origine vulcanica, a ovest da un lungomare che scorreva quasi dritto per qualche chilometro, dal piccolo porto all’estremità nord fino alla stazione ferroviaria. Il mare che la bagnava era un mare inquieto, perennemente attraversato da correnti, freddo anche d’estate, quando la temperatura poteva arrivare ai quaranta gradi e, certi giorni, un vento caldissimo arrivava da sud, battendo le strade disegnate regolarmente un secolo prima, subito dopo il terremoto che aveva quasi distrutto l’intero abitato.» È in una Reggio mai nominata se non con l’iniziale, ma molto riconoscibile, che Rocco Carbone colloca le vicende de L’assedio, pubblicato per la prima volta nel 1998 e recentemente edito da Rubbettino nell’ambito della meritoria riproposizione delle opere del grande autore calabrese, morto troppo giovane per un incidente stradale e riportato all’attenzione generale da Emanuele Trevi con Due vite, vincitore dello Strega 2021.
Un lunedì di marzo, il cielo della città cambia colore: non più il «celeste tenue» che preannuncia la primavera, ma un giallo che non è quello che i reggini pure conoscono bene (capita quando arriva la sabbia del Sahara): bensì «basso e ostile», preoccupante e opprimente. Ben presto dal cielo comincia a cadere una pioggia di sabbia sottile che copre le strade, isola tutti nelle case per la difficoltà e, talora, l’impossibilità, di varcarne la soglia, fa chiudere scuole e attività lavorative. Alcuni, più coraggiosi o più spaventati, riescono a scappare, gli altri cominciano ad organizzarsi per resistere, sperando si tratti di un fenomeno di breve durata. Saverio Morabito, tra i primi ad accorgersi di quel mutamento, e ad avvertirlo come minaccioso di eventi gravi, con alcune persone che abitano nello stesso palazzo – il vecchio e saggio Abramo, Damiano, dottore dedito al suo lavoro, il giovane Demetrio e le rispettive famiglie – decidono di sostenersi a vicenda e di condividere i beni. In città rimane anche padre Retez, parroco di una chiesa cittadina e amico d’infanzia di Saverio. Un piccolo gruppo di persone che si trova ad affrontare l’aggravarsi del fenomeno (la sabbia scende per giorni e giorni, poi per mesi, interrotta solo a tratti da piogge violente), in un clima sempre più opprimente (non si avverte sostegno da nessuna parte; la città è lasciata sola col suo dramma) e facendo i conti con i mutamenti del cuore umano, capace di passare dal reciproco sostegno all’indifferenza, al tradimento, all’egoismo più spinto. Non ci vuole molto tempo perché la città sia preda fino di delinquenti che, approfittano del dramma, per spadroneggiare con violenza.
Uno stile iperdescrittivo – che con la nitidezza delle frasi e l’accurata scelta di parole semplici e nette accentua il senso di oppressione, di pericolo, di imminente catastrofe – per un libro distopico eppure in qualche modo luminoso, attraversato com’è da una forte tensione etica: le “buone” abitudini e convinzioni del “tempo normale” valgono anche quando la situazione è del tutto anomala? La “sopravvivenza” è il fine cui si può sacrificare tutto? A quali livelli di dedizione o, al contrario, di perversione, riescono ad arrivare le persone quando “saltano” le normali barriere del vivere civile?
A Saverio che confessa al prete di essere ormai disposto «a tutto», anche «a rubare. Forse anche a uccidere», il buon padre Retez, dalla fede limpida, risponde: «Non esiste il bene e il male all’infuori di un certo tempo e di una certa condizione. La nostra stessa vita, Saverio, è fatta di bene e male. (…) Non puoi pensare di essere un uomo buono, quando tutto intorno a te sta crollando, quando sei toccato nei tuoi affetti, e hai perso la certezza della vita quotidiana.»
Fa un effetto particolare leggere L’assedio – precisa, lancinante, moderna prefigurazione di possibili eventi catastrofici che denudano ogni intima reazione rispetto ad ogni pubblico rivestimento e mettono a rischio ogni rete sociale – dopo gli anni del lockdown. Abbiamo, ormai, tutti sperimentato (tra l’altro ampiamente condividendo sui social l’esperienza della “chiusura” da covid) quella che, prima, era una distopica ipotesi fantascientifica col passaggio da una vita di normali abitudini e relazioni al restringimento in spazi, non solo fisici, delle necessità, delle attese, delle speranze. E fatto i conti – come Rocco Carbone aveva intravisto con chiarezza decenni fa – col fatto che l’unica risposta a ogni possibile mortifero cielo giallo e perché il cielo torni azzurro, è farsi carico responsabilmente non solo di se stessi, ma anche degli altri.
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*Luna pietra di Daniela Grandinetti, edito da Ab
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