La signora M. venne a chiamarci che era già l’imbrunire. “Venite, facciamo festa, che mio figlio s’è diplomato”. “Ma…” aveva cominciato mia madre, volendo dire che non c’era nemmeno tempo per comprare quello che si diceva un pensierino e presentarsi a mani vuote non era pensabile. “Non vi preoccupate. Vogliamo solo stare un po’ insieme.” La signora M. l’abbiamo chiamata, in casa, sempre col cognome, al contrario della signora S., che abbiamo chiamato sempre col nome e a G. cui era dedicato il termine cugina. Il vicinato era – dice ancora mia madre – come una badia: a voler significare una comunanza che sapeva di fraternità.
Quando la signora M. ripeté che si trattava solo di stare un po’ insieme quello che voleva dire è che lei e il marito volevano condividere con i vicini – vicini non solo nella spazio – la loro gioia: che era troppo grande, troppo trasbordante, per restare chiusa nei loro cuori e nella loro casa. Per la prima volta nella loro famiglia, e nel vicinato, un ragazzo si diplomava. Era come l’uscita da una marginalità storica, l’ingresso nella modernità cui tutti potevano ascendere: e la salita di uno era la salita di tutti. E ognuno ne poteva gioire in pienezza, senza invidie, perché, per tutti, si aprivano strade nuove. Il festeggiato era come intimidito e consapevole che, quella sera, lui rappresentava un simbolo: la piccola bandiera di una speranza collettiva.
Non so che cosa, ma ho la quasi certezza che tutti, la mia famiglia compresa, siamo arrivati con qualcosa in mano. Un complimento e un augurio per il suo futuro. Ma, anche, una festa per se stessi, per una vita che sembrava più generosa di quanto fosse stata in passato. Arrivarono, via via, altri ragazzi. Io ero tra i più giovani – stavo al ginnasio – e tutti frequentavamo la parrocchia, facevamo un giornalino, organizzavamo spettacoli di beneficienza.
Si rise molto in quella sera di fine luglio e di fine anni Sessanta. Le passate con le spase di dolci giravano tra la piccola folla che riempiva il cortile, tra l’odore del gelsomino e il rumore del mare. La conversazione ruotava intorno al maggiore dei fratelli P. Avendo una madre con dei problemi di salute, i due si stavano applicavano anche alla cucina. Ci portò alle lacrime con una pasta. Un chilo di spaghetti, un cesto, intorno ai cinque chili, di pomodori, na troffa, equivalente ad un vaso grande di basilico: per due persone. Gli spaghetti, tra l’altro gettati in pentola e mai mescolati.
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