Uno. I dati delle prove Invalsi pubblicati l’altro ieri sono terribili. Ma non sono una sorpresa. Negli anni precedenti erano solo un po’ meno brutti. Qualcuno particolarmente ottimista (io non lo sono) potrebbe addirittura sostenere che, con la pandemia, una diminuzione contenuta delle conoscenze dei nostri ragazzi, soprattutto quelli del Sud, sia un risultato non disprezzabile.
Due. I dati, poi, andrebbero letti con grande attenzione, sulla base di parametri che i servizi giornalistici non consentono. Sono del tutto a favore di rilevazioni dell’apprendimento – che consentono di tarare meglio anche l’insegnamento – e, nello stesso tempo, sono certa che molti dei miei ex alunni, compresi quelli che hanno fatto un percorso scolastico eccellente, passando, diciamo, da un realistico meno cinque ad un possibile più sette, difficilmente avrebbero superato indenni una prova Invalsi. Sarebbero, insomma, risultati degli asini, pur avendo fatto passi giganteschi.
Tre. Non c’è bisogno dell’Invalsi, per accorgersi che i livelli culturali del paese non sono certo in crescita, che i ragazzi (e non solo loro) fanno marchiani errori di grammatica (figuriamoci, quindi, il resto). Non è la Dad il punto, anzi la Dad, nelle condizioni date, ha permesso la continuità della scuola. Il problema è più profondo e le sue radici restano le differenti condizioni socio-economiche generali: è la società il problema; il Sud sconta, nell’apprendimento delle giovani generazioni, le sue condizioni di inferiorità, dal bassissimo numero di scuole della primissima e prima infanzia agli indici di Pil.
Quattro. Poi c’è un problema scuola. Nonostante buone pratiche, sperimentazioni, proposte innovative siano diffuse ed encomiabili – e senza la scuola, non quella ideale, ma questa staremmo tutti molto peggio – c’è un punto di grande debolezza. È un particolare che ha a che fare con l’intera società. Da troppi anni, noi non sappiamo chi siamo e chi vogliamo essere e, di conseguenza, che cosa consideriamo veramente fondamentale che le giovani generazioni apprendano. Questo ha fatto sì che siano cresciuti a dismisura i “progetti” collaterali, non arricchendo ma togliendo via via un centro e, con questo, un senso generale dell’apprendimento. Se non si scioglie questo nodo, temo che le riforme, per quanto intelligenti e accurate, e anche maggiori finanziamenti (importanti) e migliori strutture (indispensabili) e accurata formazione dei formatori (mai sufficiente) non riescano ad ottenere i risultati auspicati.
Cinque. La pandemia ha riportato sulla scuola un’attenzione generale. Urge approfittarne. Tutti sono ora d’accordo sulla sua insostituibile importanza. È il momento perché la politica, la società civile, chi, a qualsiasi titolo, ha a che fare con bambini e ragazzi dica che cosa la scuola italiana, nella nostra realtà europea e in un mondo globalizzato, debba fare oggi: fare non nel senso delle attività, ma in quello, ben più decisivo, degli obiettivi da raggiugere. Sapere che tipo di persona, di cittadino si prefiguri è essenziale per sapere che cosa e come bisogna insegnare, selezionando da un patrimonio culturale ormai ricco di millenni. La didattica, prima di essere una questione tecnica è una questione di prospettiva. Tutte le strade diventano contorte se non hai una meta. Senza una prospettiva comune, di una società che si senta comunità, temo non si riuscirà a venire a capo della splendida, affascinante ma faticosissima avventura dell’articolare istruzione ed educazione, conoscenze inutili e formazione pratica, i fondamentali (leggere, scrivere, far di conto) con tutte le progettazioni a corredo, includendo tutti, senza che questo significhi un continuo livellamento verso il basso, anzi facendo crescere anche le eccellenze.
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