Lunedì 30 maggio sarà un giorno felice per i morantiani – torna, infatti, dopo alcuni
anni di sospensione il Premio Morante
ragazzi – e anche per i nisidiani.
I ragazzi di Nisida fanno parte da sempre della giuria
popolare che sceglie il supervincitore e attribuiscono un premio speciale Morante ragazzi – Nisida dedicato a Roberto Dinacci.
Quello che
segue è un mio racconto su Roberto, contenuto nei Racconti per Nisida (Guida, 2010, fuori commercio.)
La primavera
dell’anima
Di tutta la memoria solo vale
il dono eccelso di evocare i sogni.
Antonio
Machado
Nel 3013 era ormai stata quasi del tutto completata la
ricostruzione. Tredici anni prima, uno sconvolgente fenomeno aveva modificato
la struttura geofisica di tutto il golfo di Napoli, di molti paesi vesuviani e
dell’area flegrea. Un violento terremoto, con un contemporaneo maremoto, e un’esplosione
del Vesuvio paragonabile solo a quella del 79 d. C., aveva provocato un numero
contenuto di morti, solo grazie alle scoperte scientifiche che avevano permesso
di prevedere gli eventi e, quindi, di prevenirne il più possibile le
conseguenze. Si sapeva che i particolari gas sprigionati dal triplice fenomeno
avrebbero bloccato il funzionamento dei computer e diminuito le capacità di
memoria delle persone. Per tempo, erano state progettate nuove tecnologie ed
erano stati selezionati gruppi di giovani sui quali sperimentare metodi e
farmaci per ritessere i fili del ricordo.
Ormai quasi non si parlava più di quanto accaduto e
l’opinione pubblica sembrava emozionarsi solo quando emergeva qualche traccia
di Nisida, che era stata sommersa dalle acque e che, nell’immaginario
collettivo, era diventata l’isola dei
ragazzi dispersi che non c’è.
Quando nel gennaio del 3013, in una cittadina a nord
di Napoli venne ritrovata una piccola Nisida in ceramica, la notizia rimase circoscritta
agli addetti ai lavori, che entrarono però in fibrillazione. Ad aprile, la
scoperta di una seconda isoletta nella stessa cittadina venne riportata da
tutti i mezzi di comunicazione ed entrò nelle conversazioni di tutti. Ma il
ritrovamento, all’inizio di giugno, di una terza Nisida di ceramica venne
accolta con manifestazioni di emozione collettiva cui non si era più abituati.
Mentre Nisida diventava un mito e la sua icona veniva riprodotta dovunque
milioni di volte, le autorità erano riuscite a non far filtrare le circostanze
e le particolarità dell’ultimo ritrovamento.
Le due precedenti piccole isole di ceramica erano
state scoperte nel centro abitato, la terza era stata ritrovata in quello che
restava del cimitero, ancora miracolosamente incollata su una lastra di marmo
che, pur staccatasi dalla tomba, manteneva qualche brandello di foto
completamente slavata dal tempo e alcune lettere di un nome. Venne segretamente
nominata una commissione di esperti che dovevano ricostruire chi era stato il morto
sulla cui tomba era attaccato il simbolo di Nisida. Fu chiamato a presiederla
un professore di fama mondiale, grande conoscitore della storia, autore di
studi fondamentali sull’area flegrea e gli vennero dati pieni poteri, persone e
mezzi in quantità. Gli unici vincoli che gli vennero imposti furono di fare
presto e di non far filtrare notizie finché non si avessero dati certi:
soprattutto, di far presto perché si temeva che la crescente emozione popolare
e il continuo rimbalzare di notizie inventate potessero alla fine creare
problemi di ordine pubblico. Il professore scelse quattro collaboratori
stretti, due colleghi e due colleghe e, per spirito scientifico e per evitare
ogni polemica, riuscì a comporre un team che raccoglieva tutte le diverse correnti
di pensiero dell’epoca. La commissione selezionò in tempi rapidissimi dieci
sottocommissioni ognuna formata da cinque membri, cui vennero distribuiti i
compiti.
In pochi giorni, lavorando anche diciotto ore di
seguito, i giovani ricercatori riuscirono a estrarre dai computer ormai silenti
– nei musei di archeologia informatica erano conservati vecchi libri
elettronici su dispositivi di memoria digitale, rinvenuti in locali sfascia bit
o durante gli scavi – un cumulo di informazioni che, su nuovi, piccolissimi
dispositivi, si accumulavano sui tavoli dei cinque coordinatori. Che da parte
loro lavoravano tutto il giorno, scegliendo, selezionando, comparando
informazioni. Riuscirono a ricostruire l’epoca – i fatti dovevano collocarsi
circa un millennio prima, cosa che rendeva ancora più straordinaria la
permanenza sulla lastra di marmo dell’isoletta di ceramica dalle forme precise
che, in piccolo, riproducevano tutte le mappe di Nisida conosciute. Non
riuscirono a mettersi d’accordo sulle tre lettere – due consonanti e una vocale
– in rilievo sulla lastra finché una ricercatrice non fece una scoperta
eccezionale: sulla base dell’isoletta c’era segnato qualcosa. Sottoposta la
fragile ceramica con mille accortezze a più approfondite analisi, si arrivò
alla conclusione che vi fosse scritto: a … seguito da tre lettere dell’alfabeto
abbastanza chiare: e dopo alcune discussioni, più per l’esigenza di portare
avanti le proprie teorie che per vera e propria necessità, si concordò che
bisognasse focalizzare le ricerche su un ragazzo, dal nome ormai conosciuto
approdato sull’isola un millennio prima per chissà quale motivo.
Immessi tutti i dati nei computer di ultima
generazione, filtrati e rifiltrati decine di volte, riuniti più volte i suoi
collaboratori, il presidente della commissione arrivò a ipotizzare a tutte le
autorità, compreso il ministro dell’Interno, ogni giorno più ansioso che si
facesse presto, anche un cognome, indicandolo come certo all’ottanta per cento,
anche se lui, personalmente, ne era tanto certo che aveva già dato disposizione
che le ricerche si concentrassero su quel nome.
I primi risultati confortarono e, insieme,
sconfortarono la commissione. Vennero ritrovate centinaia di frasi su di lui,
ma nessun testo completo, nessuna biografia: “Che tragedia – si dicevano
vicendevolmente i professori – uno su cui si trova tanto e poi, invece, saranno
state disperse le opere più complete…”. Ma c’era una difficoltà insita nei
testi, che erano pieni di parole sconosciute: sorriso, dovere, servizio.
Chiamarono degli specialisti in lingue antiche e anche un gruppo di donne che
avevano raggiunto l’eccellenza in test attitudinali per una qualità ormai
pressoché estinta: una forma di empatia grazie a cui, avuti dei dati, si poteva
immaginare, mettendo i pezzi in un insieme coerente. E un gruppo di artisti
psicologi che dovevano, dalle immagini eventualmente recuperate, fornire
qualche indicazione sul suo carattere.
In capo a due mesi formularono un identikit di
massima. Nonostante tutte le cautele e gli accorgimenti presi, l’immissione di
nuovi ricercatori aveva provocato un allargamento delle strette maglie della
segretezza e qualche notizia cominciò a filtrare all’esterno. I mezzi di
comunicazione cominciarono a dare delle anticipazioni: un giovane uomo, bello,
dotato di qualità alcune delle quali incomprensibili e, comunque, da studiare.
Qualcuno fece anche delle ipotesi sul suo nome, arrischiando la lettera
iniziale o facendo capire che era composto di sette lettere: sette lettere un
nome, intitolò qualcuno, riprendendo un verso di un antico poeta, Pedro
Salinas. Le notizie alimentarono attese e discussioni tra le persone e il
ministro dell’Interno fece nuove pressioni sul presidente della commissione,
che chiese e ottenne ancora altri ricercatori e altri strumenti d’indagine.
L’esimio professore era tentato di chiudere in fretta,
mettendo insieme in qualche modo i dati fin lì raccolti, ma glielo impedivano
la sua lunga abitudine allo studio serio e metodico e alcune piccole scoperte
che la più giovane delle sue ricercatrici gli aveva consegnato. Sebbene si
trattasse pur sempre di poche frasi, la sua competenza gli diceva che quelle
parole facevano parte di un tutto unico, un libro: che andava ritrovato,
assolutamente. E altre frasi, per la prima volta, legavano Nisida e quel Nome
che per prudenza lui si era appuntato in varie agende manuali e informatiche
scomponendone le lettere in modi strani per renderlo irriconoscibile. C’era poi
un fenomeno che andava osservando da tempo, prima con curiosità intellettuale
poi con una sorta di turbamento crescente: tutti i ricercatori avevano iniziato
lavorando con impegno, ma col tempo questo elemento s’era sempre più intriso di
emozioni. Ora, nel 3013 le emozioni erano ormai rare e, soprattutto, scattavano
a comando: si decideva socialmente per che cosa bisognasse emozionarsi e, con
un certo disinteresse oppure con ostentata forza, ci si emozionava. Ma, nella
circostanza, non era così: l’emozione dei ricercatori era profonda, come
un’acqua sotterranea che nessuno conosceva e a cui non potevano essere messi
argini. Lavorano per ore e ore e avrebbero lavorato anche di più e ogni piccola
frase, ogni immagine, ogni riferimento trovato era come se li colmasse di un
senso pieno del loro essere vivi: o, meglio, di qualcosa di sconosciuto per cui
aveva cercato una definizione e, tra tutte, pur parziale, era quella che gli
sembrava approssimarsi di più. Sapeva che era riuscito a trovare delle parole
perché riconosceva in lui medesimo segnali che lo stupivano e gli lasciano
dentro scie di struggimento e di malinconia cariche di vitalità.
Arrivò un’inattesa fortuna. Una notte che il
presidente e i suoi quattro collaboratori erano immersi nell’analisi di alcuni
spezzoni di testi che forse si riferivano a lui e forse no, chiese d’essere
ricevuta la più giovane delle ricercatrici. I capelli neri le scendevano a
piccole onde sulle spalle e i suoi occhi erano fiammelle che avrebbero dato
luce a quella stanza se per qualche ragione fosse caduto il buio. Riservata per
carattere, era considerata una studiosa accurata e attendibile. Mai, qualche
mese prima, si sarebbe presentata ai suoi capi chiedendo qualcosa né loro
stessi l’avrebbero ricevuta: da entrambe le parti un tale comportamento sarebbe
stato considerato del tutto sconveniente. Lo sguardo era fiero, ma la voce,
tremante, sapeva di uno sconvolgimento delle viscere, di un battere del cuore
all’impazzata. Per mesi, pur svolgendo al meglio i compiti che le erano
assegnati, aveva svolto una sua ricerca parallela e marginale. Le era capitato
un brano, solo un rigo, rivolto a lui, un
“tiamooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooooo”
che l’aveva indotta a cercare di lei. Non lo disse, ma si capì lo che
considerava non un risultato d’un’analisi accurata e capillare, ma di un colpo
di fortuna, o, meglio, d’un evento a metà tra il misterioso e il miracoloso.
Porse al presidente la piccola mano inguantata di una sostanza speciale:
“Visionate questo video, per favore”.
Le immagini erano sgranate, i caratteri dello scritto
apparivano deformati e la musica di sottofondo gracchiava, eppure lo stato
quasi ipnotico con cui lo visionarono non atteneva al loro compito attuale e,
più in generale, alla loro professione, ma molto più semplicemente e insieme
stranamente al fatto che il ragazzo di cui si parlava aveva molto amato e molto
amore aveva lasciato. Strana parola, questa, “amore” ormai desueta da almeno
cinque secoli. Ognuno dei cinque esimi professori allargava il petto e alzava
le spalle, irrughendo il volto come ad analizzare con assoluta attenzione e
imparzialità scientifica e ognuno di loro sapeva che qualcosa di simile a un
cubo di ghiaccio gli si stava sciogliendo in petto e che, qualunque sforzo
avesse fatto, mai sarebbe tornato ad essere come prima.
Il presidente acquisì il video, lo inserì tra i
documenti più importanti finora trovati, quelli maggiormente secretati, chiese
il massimo riserbo e congedò i colleghi dando loro appuntamento intorno alle
dieci della stessa mattina. Quanto a lui, troppo stanco e agitato per cercare
di dormire, si avviò verso la spiaggia davanti a cui fino a pochi anni prima
sorgeva Nisida. Dal mare, calmo sotto un cielo stellato, sembrava provenire una
musica che, nella mente, si materializzava in poche parole vere. Prese una
decisione, sapendo che si stava giocando l’intera carriera, ma più ancora il
rispetto e la considerazione che aveva per se stesso.
Quando finì di parlare a tutti i ricercatori,
raggiunti all’alba da un ordine di servizio che diceva di radunarsi alle dieci
in punto nella sala grande – una cosa mai successa perché, nel caso di
comunicazioni collettive, erano state sempre utilizzate le videoconferenze –
notò il respiro rilassato di molti e scoprì che quella che aveva appena
indicato come nuova linea di ricerca – ovvero aprire all’esterno, provare anche
se con cautela a chiedere la partecipazione di altre persone, formare piccoli
gruppi di supporto – un po’ per capirci come certi gruppi fb di adesso – era,
in piccole dimensioni e molto in segreto, cosa già messa in moto, o comunque considerata
opportuna da molti. Anzi, altro termine desueto di cui gli parve di vedere un
concretizzazione, sognata.
Le connessioni attivate sembrarono ravvivare la
memoria collettiva e far rinascere i ricordi sopiti di ciascuno. Un ricercatore
sulla quarantina, un inizio di pancetta e qualche pelo ingrigito sulla barba si
sovvenne che una sua antica fidanzata – che non gli aveva mai perdonato modi e
motivi della rottura – gli aveva un tempo raccontato che una sua trisavola
aveva lavorato in un qualche carcere su un’isola e che aveva lasciato migliaia
di libri, che erano stati trasferiti in una casa in una città dell’estremo sud
del paese insieme a due o tre casse di carte che nessuno s’era mai preso la
briga di controllare. Il ricercatore in questione, un tipo ironico e
distaccato, venne preso da una a lui stesso incomprensibile urgenza di leggere
quelle carte, come se lì ci fosse la soluzione di ogni problema. Aveva, a suo
tempo, cancellato ogni traccia della fidanzata e non sapeva come rimettersi in
contatto con lei e, nel caso, quale sarebbe stata la reazione di una donna il
cui ultimo sguardo l’avrebbe voluto incendiare e le ultime parole seppellirlo
vivo. Per qualche sortilegio, fu lei a chiamarlo per una informazione che solo
lui poteva darle. Non sembrava ricordare il passato e non ebbe difficoltà a
dirgli che non aveva problemi a lasciargli le chiavi della casa, abitata solo
nei mesi estivi, perché ci facesse un salto il prossimo week end: per quanto ne
sapeva nessuno aveva mai toccato quelle carte. Non fece domande, aveva troppi
problemi per manifestare qualche curiosità che lo potesse mettere in imbarazzo.
Arrivarono in cinque, a notte fonda, nella casa sul
mare, in una costa su cui si prevedeva un rivolgimento tra una cinquantina
d’anni. Le cassette di carte stavano dove la proprietaria della casa le aveva
lasciate: fogli sparsi, quaderni, qualcuno divorato dagli insetti, qualcuno che
i prodotti antitarme erano riusciti, almeno in parte, a mantenere intatto.
Trovarono bozze di progetti, schemi di lezioni, orari settimanali nelle classi.
Trovarono anche degli opuscoli. Intorno alle undici del giorno dopo, esausti, si
fermarono per un pranzo veloce con i cibi in scatola che s’erano portati
dietro. Non avevano niente di più forte e brindarono ognuno con la sua lattina
che più light non si poteva. La trama della storia si era ormai dipanata nelle
loro mani.
Il quattro ottobre, proprio nel giorno in cui il
ragazzo di cui avevano ricostruito la storia e il suo legame con Nisida compiva
gli anni, la conferenza stampa segnò come l’inizio di un tempo nuovo.
Psicologi sociali e studiosi di molte discipline
avrebbero poi prodotto studi monumentali per cercare di spiegare quello che era
successo. Libri, film, fiction televisive, video: la storia del ragazzo che di
professione faceva il politico e che a chiunque, nel suo breve passaggio, aveva
regalato un sorriso, tempo e attenzioni, facendo di nuovo ingemmare cuori
inariditi e scorrere nuove speranze e declinare possibilità di futuro entrò in
ogni casa, in ogni scuola, in ogni luogo in cui si radunavano almeno due
persone. Non era una moda, ma un interesse intimo e sincero, che placava
l’anima e nello stesso tempo sembrava vincolarla al sogno di giustizia e verità
che era stato suo.
Le arti crebbero, perché letteratura e pittura e
musica cercarono mille forme per raccontarlo e la cultura ebbe uno strepitoso
balzo in avanti, perché bisognò ristudiare la lingua di un tempo per cogliere
il senso di parole di cui s’era perso il significato. Occupati com’erano a
raccontarsi l’un l’altro con tutti gli strumenti a disposizione sempre la
stessa storia – che sempre sembrava nuova e ogni volta che veniva raccontata o
anche solo pensata senza accorgersi di pensarla rendeva tutti più buoni:
migliori – non ebbero neppure il tempo di meravigliarsi perché gli uomini del
suo tempo non l’avessero eletto a portavoce dei loro sogni. Come non capitava
più da parecchi secoli, si diffuse un nuovo rinascimento, e soffiò sull’intero
paese una primavera dell’anima.
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