Si legge in un niente, ma non scivolerà facilmente
dalla mente, l’ultimo libro di Elizabeth Strout, Mi
chiamo Lucy Barton, uscito in Italia il 3 maggio.
Sono appena 160 pagine,
lavorate per sottrazione: il non detto è importante almeno quanto il detto per
dare forma alla vita della protagonista e, con lei, a una miriade di
personaggi, a partire da sua madre.
Le parole e i silenzi che si scambiano nei
cinque giorni in cui la madre sta al capezzale della figlia, che passa nove
settimane in ospedale, in una stanza affacciata sulle luci del grattacielo
Chrysler sono fondamentali perché Lucy rilegga la sua intera esistenza.
Consapevole
che nessuno conosce fino in fondo un altro, ricompone i frammenti della sua
vita con umiltà e indulgenza salvando così, nelle sue relazioni acciaccate e
afasiche, i piccoli squarci di luce, le vibrazioni di ogni segno d’amore.
Sarà
in una scuola di scrittura che assorbirà l’insegnamento decisivo: «Ciascuno di
voi ha una sola storia. Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi.
Non state mai a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avene avete una sola».
La protagonista della Strout,
anche lei scrittrice, trova parole perfette per raccontarsi, perché non cerca
di colmare con parole vuote il silenzio dolente di una vita, lo lascia lì, in
tutta la sua forza, e proprio dal silenzio trae le poche parole necessarie per
dirsi: levigate dal mare del tempo, rese essenziali dal dolore del cuore.
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